Sorrentino doveva trovare la forma adatta per mettere in scena un rimodellamento teorico riguardo al personaggio che più di ogni altro a fatto dell’omissione la sua carta vincente. La politica come sopruso, come sotterfugio, come rivendicazione di uno stile nazionale che fondeva malaffare e dignità oratoria: la capacità di parlare in pubblico celando ben altri propositi da quelli sostenuti.
Andreotti come un Moloch impenetrabile, persona algida e piena di ironia luciferina, ma sopratuttto, una persona che sta per ricevere su di sé accuse pesantissime, infamanti, che tagliano il personaggio in una cesura temporale tra prima e dopo, lasciando che all’enigma iniziale sia sostituita una feroce e chiarissima requisitoria morale. Il Divo Giulio colpevole, in primissima persona, in una scena frontale fortissima, che diventa da subito epiteto sulla finitezza problematica di un personaggio complesso, mai finito ma sempre sul punto di trasformarsi in qualcos’altro, un lucido manipolatore o un severo monarca, si autoaccusa, ma sarebbe meglio dire ammette la propria responsabilità morale come uomo delle istituzioni che è stato incapace di modificare un destino già segnato da interessi continentali di cui lui era il garante.
Sorrentino non eccede, non tocca la maniera, dosa bene gli argomenti, si inventa una regia spavalda ma pulita, procedendo con un passo più spedito in termini di spettacolarità, rispetto al buono ma non eccezionale Le conseguenze dell’amore, tenendosi completamente staccato dalla pesantezza di L’amico di famiglia, film a dir poco inutile se non dannoso per la filmografia di questo astro nascente del cinema italiano. Dal punto di vista della sintesi tra contenuto e forma, L’amico di famiglia era un colossale buco nell’acqua, Il Divo rappresenta uno slancio stilistico essenziale, in cui il cinema si cristallizza in una forma solida e complementare ad uno studio che legittimi l’eliminazione di ogni pastoia teorica, facendosi angolo prismatico seducente e rivelatore ma, attraverso delle precise scelte di cast, attuando una severa analisi del periodo, dando decoro e nervi ad una costruzione che non ammetta sbavature.
Un film difficilissimo che per Sorrentino diventa intromissione nello sguardo ipnotico, labirintico verso un passato, quello italiano, cui non si riesce a dare una forma ben chiara: le scelte di regia in questo senso sono talmente chiare e ineludibili, anche perché un film su Andreotti non si poteva sbagliare, era atteso da anni. Finora non era stato possibile farlo perché è stato solo nel 2004 che si è avuta la sentenza definitiva sul processo Andreotti. Il tempo, dunque, si può dire che abbia lavorato a favore del regista, che ha potuto elaborare una strategia di visione, mettere finalmente in prospettiva gli eventi gravissimi del biennio 1992-1993, in cui l’Italia dal punto di vista politico-economico è cambiata radicalmente come non succedeva da 40 anni.
Le scene che si prestano alla vivisezione sono molteplici, sequenze che rigano l’immaginario, si lasciano dietro dubbi e un’inquietante ironia che non lascia scampo.
Ma sia ben chiaro, ne Il Divo di Sorrentino non v’è glorificazione dell’imputato Andreotti, lo sguardo non è affatto di sudditanza, il regista non ammira il discusso statista, lo osserva come una cavia da laboratorio, ne scruta il volto scavato, si domanda dove nasca il mistero-Andreotti, senza trovare risposta. Rimane solo la sensazione di una guerra morale, il ricordo indelebile di Moro con lo sguardo quasi mefistofelico (ma Moro non aveva un volto pacato, umano, gentile? la prospettiva di visione ideata da Sorrentino stavolta è spiazzante, forse viene messo in scena specificamente dal punto di vista del Divo Giulio), il prete che confessa Andreotti e che tenta di decifrarne il pensiero, la corrente andreottiana, formata da attori apparentemente di bassa levatura, come per esempio Carlo Buccirosso/Pomicino che, diretto in un ruolo del genere da Sorrentino, acquista una luce che non si era mai rivelata prima. Il Divo è un kolossal sull’uomo dei misteri che andava fatto e che riporta il cinema italiano in un ruolo di primissima grandezza e caratura internazionale.
L’Italia non poteva mancare all’onere di dare un severo giudizio al proprio passato. A Sorrentino non sono tremati i polsi, il suo è anche un film estremamente godibile, che rimane allo spettatore come uno specchio deformato della realtà, in cui tutti gli incubi rimangono intatti, a far paura e a lasciar dubbi che lacerano e fanno pensare. Che il cinema italiano faccia pensare è una novità molto grossa.