Ciò che stabilisce una connessione involontaria tra le precedenti opere di Larrain e questo ultimo El Club è il clima ansiogeno e l’atmosfera di rarefatto realismo. Ma le assonanze si fermano qui. Pablo Larrain ha concentrato la sua attenzione e i suoi sforzi per 5 anni, indagando il periodo della dittatura di Augusto Pinochet in Cile attraverso una ideale trilogia che ha sconvolto le platee festivaliere e non solo e ha fatto nascere un nuovo autore.
Ora il giovane regista cileno cambia argomento, prendendo di petto lo scandalo dei preti pedofili. E il suo cinema cambia, in maniera inevitabile. Quello che ne esce fuori è un viaggio agli inferi, una via crucis, un “processo” alla Storia di rara potenza espressiva. Eppure il didascalismo narrativo soprattutto nella seconda parte, prende spesso il sopravvento, rendendo l’esperienza della visione qualcosa si di autentico, ma lasciano l’amaro in bocca per il disvelamento di un dolore lancinante che assicura la giusta punizione per individui la cui colpa è impressa sui volti fin dalla prima sequenza.
L’ironia con cui Larrain dipinge questa “resa dei conti” traspare grottesca, scomposta, diretta ad annichilire lo spettatore, che si trova davanti una dichiarazione d’intenti violenta e senza compromessi. Ma forse tutto quello che si vede nel film lo si poteva immaginare anche prima della visione. El Club è un film esplicitamente potente, ma senza convergere in una costruzione narrativa circolare, deflagrando nella partitura narrativa di una sinfonia su un Cristo Morto (il Sandokan di Roberto Farias), che si aggira dalle parti di una umanità (il “club” dei preti criminali) disconnessa dal mondo esterno, incapace di interpretare la realtà del suo dolore, rimanendone completamente travolta.
Essendo il cinema il lavoro sulla memoria, la trilogia su Pinochet aveva raggiunto livelli altissimi di “time-machine”, rendendo alla Storia del cinema una mirabile rappresentazione immaginifica di un “tormento della Storia” che avvenne in un periodo di morte anticipata della democrazia. El Club ha il difficile compito di dover rappresentare l’oggi, la banalità disfunzionale di questo periodo storico, avvalendosi di una luce, quella di Sergio Armstrong, che punta a portare il livello del realismo in una surrealtà indicibile, così da universalizzare il sentimento della tragedia. Un compito arduo e ingrato, che Larrain svolge come una perizia da medico legale su un paziente morto. Ecco, El Club è il paziente morto cui il regista compie una tremenda, gelida, autopsia. Il cinema ne esce agghiacciato, senza più mistero e con un dolore che non si stempera mai nell’autoconsapevolezza di un ribaltamento di senso liberatorio, ma deflagra in una distorsione entropica degli spazi, che fa pensare a un’apocalisse deformata.