Spotlight nacque negli anni ’70 come squadra di reporter specializzati in inchieste particolarmente audaci attiva in seno al “Boston Globe”, principale testata della regione del New England (negli Stati Uniti nord-orientali). Nel 2003 vinse il Premio Pulitzer (il 17esimo dei 23 conquistati dal giornale nell’arco degli ultimi 50 anni), “per il suo coraggioso, ampio svelamento di abusi sessuali da parte di sacerdoti, uno sforzo che ne ha forato la segretezza, ha sollevato una reazione locale, nazionale ed internazionale e ha comportato cambiamenti nella Chiesa Cattolica Romana”.
Il quinto lungometraggio scritto e diretto da Tom McCarthy racconta del grande scandalo, messo in luce dapprima nell’arcidiocesi della capitale del Massachusetts, quindi nel resto del Paese, che ha visto per decenni il dilagare all’interno del clero di condotte degenerate spesso sconfinanti, nelle loro insistite attenzioni per giovani ragazzini sovente emarginati e indifesi, in pratiche pedofile e precipuamente pederastiche. Le proporzioni di questo caso giudiziario sono state memorabili, vista la capillarità delle ricerche e la maestosità dell’istituzione da porre sotto accusa; pur tuttavia certamente non si tratta del singolo affrontato dal team che dà il titolo al film, appesantito di conseguenza dall’indebita aggiunta de “Il caso” nella versione italiana, rea di un’eccessiva astrazione.
Zoccolo duro dell’opera è innanzitutto un cast sensazionale e lecitamente pluripremiato (non di rado in competizione con quello altrettanto coeso de La grande scommessa), osservando le cui dinamiche non si evidenzia alcun personaggio nel ruolo di autentico protagonista. Il gruppo è formato dal caporedattore Walter “Robby” Robinson, affidato alla navigata, iconica disinvoltura di Michael Keaton, il portoghese Michael Rezendes, coinvolto in una vera e propria crociata personale, vivissimo nell’interpretazione di un Mark Ruffalo come sempre accorato (alla sua la terza nomination agli Oscar), Sacha Pfeiffer, impersonata da un’ipnotica e luminosissima Rachel McAdams, che riesce ad inchiodare col solo sguardo (caratteri e spettatori e membri Academy, che le assegnano la sua prima candidatura), e infine da Matt Carroll (Brian d’Arcy James), pure coinvolto a livello individuale, preoccupato al pensiero che i suoi figli possano essere nella propria intimità familiare “toccati” dall’epidemia, più vicina di quanto si sarebbe mai immaginato.
La vicenda mostra come il fenomeno fosse in atto da lungo tempo (e ne riflette indirettamente la triste attualità), sottratto al pubblico dominio dalla comunità dei credenti, dalle autorità e persino dalla Chiesa stessa. Per muovere un’istanza così consistente ci voleva un vero e proprio outsider, dotato all’alba del nuovo millennio di un temperamento particolarmente adatto, come il nuovo editore ebreo del Globe Marty Barn, composto e risoluto nella distinta recitazione di Liev Schreiber; così come per risalire ai brogli processuali e alle tattiche di insabbiamento, tutt’altro che ingenue, era necessario il contributo di Mitchell Garabedian (Stanley Tucci), procuratore armeno oberato di lavoro e dal profilo umano difficilmente penetrabile, che precedentemente aveva sì operato contro l’Ecclesia… salvo poi attirarsene le misure preventive, confinato in uno stato di fantasmatica sorveglianza.
Il comune denominatore di questi signori è la tenacia e la più inscalfibile professionalità, che trova nella solida sceneggiatura (co-redatta da Josh Singer), forte di un’esplicita distanza da tentatrici diluizioni romanzate, quella coerenza, quell’asciuttezza (anche nella descrizione dei soprusi subiti dagli al tempo ragazzini, per voce perlomeno dei sopravvissuti) che sono in grado di promettere una costruzione filmica di magistrale coinvolgimento, destinata a raggiungere in corrispondenza dell’epilogo, impercettibilmente nella sua genuina veridicità, un livello di tensione di acuto impatto. Complici anche le efficaci musiche di Howard Shore, per qualche tempo in odore di competizione alla Notte del 28 febbraio, abili e allo stesso tempo discrete nel suggerire il clima di inarrestabile indagine che si evolve dal primo all’ultimo minuto. Candidature anche per Il caso Spotlight, dato per possibile vincitore, per McCarthy regista e sceneggiatore assieme al succitato Singer, e in chiusura per il montatore Tom McArdle, parimenti artefice di un equilibrio che squisitamente deve la propria moderata compiutezza al rispetto dello statuto di verità.