Mi sembra che con La Solitudine Dei Numeri Primi Saverio Costanzo abbia inaugurato una nuova fase della sua carriera, che si collega ai suoi primi due lavori (Private, In memoria di me) soltanto per la centralità di personaggi che sono costretti a relazionarsi con un luogo nel quale fanno fatica ad appartenere o ad adattarsi. Rispetto alle sue prime opere, la trasposizione cinematografica del libro di Paolo Giordano sorprese per le sue scelte stilistiche, per l’attenzione che venne data alla forza immaginifica: per ammissione dello stesso Costanzo, il film era debitore del “miglior cinema horror di sempre”, quello di Dario Argento e di Brian De Palma, in particolare de L’uccello dalle piume di cristallo e di Carrie Lo sguardo di Satana . In seguito, Costanzo dichiarò che fu influenzato anche da Antichrist di Lars von Trier e da The Wrestler di Darren Aronofsky, proprio per quel che riguardava l’effetto visivo che voleva trasmettere.
Hungry Hearts prosegue questo lavoro di ricerca che il regista ha intrapreso con la pellicola precedente: cambiano i modelli, da cercare non più in De Palma e in Argento ma in Roman Polanski (Rosemary’s Baby Nastro rosso a New York) e in John Cassavetes (Una moglie). Dal punto di vista dell’impatto dell’immagine, si tratta della conferma di uno stile assolutamente unico oggi in Italia, che si distacca clamorosamente dalle regie televisive o da quelle impeccabili ma accademiche. Costanzo ama osare con la macchina da presa, passando senza alcuna titubanza da un pianosequenza fisso ad alcune soggettive “deformanti”, finalizzate ad assumere il punto di vista e la percezione dei protagonisti. Non dando mai l’impressione di essere fine a se stesso, di rivelarsi troppo autocompiaciuto, ma ribadendo sempre il dovere della funzionalità dell’aspetto tecnico a quello contenutistico.
Liberamente ispirato al libro di Marco Franzoso Il bambino indaco, Hungry Hearts racconta la storia di due giovani adulti, alle prese con una realtà che rischia di schiacciarli e che potrebbe farli crollare, emotivamente e psicologicamente. L’eccessiva protezione di una madre nei confronti del proprio figlio potrebbe addirittura rivelarsi mortale. Come ne La solitudine dei numeri primi, il deteriorarsi del corpo è uno degli aspetti fondamentali: il fanatismo alimentare porta all’estremo, all’esasperazione la fisicità nuda e fragile di Alba Rohrwacher. Nella stessa maniera, non sono scelti a caso Adam Driver, papà altissimo e magrissimo, razionale ma mortificato di doversi porre in contrasto con la donna che ama, e Roberta Maxwell, dal volto inquietante e dal ghigno orrorifico, nonna apprensiva, che non ha intenzione di rinunciare alla salute del proprio nipote e non esclude alcun tipo di soluzione per garantirla.
Un applauso a Saverio Costanzo, dunque, e a questo cinema che pone interrogativi e non offre risposte consolatorie, interessato a far sobbalzare lo spettatore, a tenerlo vivo e attivo durante la visione, e non a esporgli correttamente la lezioncina di Storia da sussidiario o il moralistico ritratto della famigliola borghese in crisi. Da segnalare, nuovamente, l’accurata e originale colonna sonora, che passa da ‘Flashdance…What a feeling’ di Irene Cara a ‘Tu si’ na cosa grande’, fino al magnifico e commovente lavoro di Nicola Piovani, degno di un premio Oscar.