Furyo

1942. Durante la Seconda Guerra Mondiale, a Giava, Yonoi è il Comandante di un campo di concentramento giapponese, dove sono rinchiusi prigionieri britannici. Yonoi è segretamente attratto dal Maggiore Colliers.
    Diretto da: Nagisa Oshima
    Genere: drammatico
    Durata: 123'
    Con: David Bowie, Ryuichi Sakamoto
    Paese: UK, GIAP
    Anno: 1983
7.6

Collocato nel novero dei film della maturità di Nagisa Oshima, Furyo (1983) si pone quasi come l’architrave ideologica del suo cinema, tutto centrato sulla fascinazione dell’Altro da sé, sia che esso si dia come Occidente (rispetto all’Oriente) che come rappresentante di una vitalità e di una sessualità “aliene”.

In Furyo, Oshima trova la giusta distanza e la proporzione tra slittamenti metaforici e straniamento, con uno stile di regia che sottolinea in continuazione i rapporti tra i personaggi e, proprio per questo, li rende sfaccettati, enigmatici, scivolosi e insidiosi, ironici nel senso meno scontato. Come se il continuo avvicinarsi ai protagonisti della macchina da presa avvenisse con fuori fuoco improvvisi, rendendo opaca non la narrazione, ma la sua percezione da parte dello spettatore.
Nella vicenda, peraltro esemplare, dell’attrazione tra il comandante di un campo di prigionia giapponese del 1942 (impersonato da un Ryuichi Sakamoto usato come contraltare nipponico dell’altra rockstar David Bowie) e il dandy interpretato dal “Duca”, s’intravede il discrimine tra un cinema tutto “di viscere” e l’imposizione di regole militari (in senso naturalmente lato) alla rappresentazione: con la curiosa conseguenza di un film costretto all’unità di luogo (salvo i brevi flashback sui ricordi giovanili di Bowie), che sembra tuttavia svolgersi sempre in un altrove immaginario aprendosi liricamente al fantastico.
Una discrepanza che, a pensarci bene, vuole ricalcare quella tra gli eventi esteriori (la guerra con i suoi corollari di crudeltà, orrore e potere degli uomini sui nemici vinti) e le passioni profonde e insondabili degli uomini: il contrario di ogni realismo pedissequo e “stupido”, la riprova di un’irriducibilità di fondo della Storia alla Ragione e anche al Destino. Per dirla in termini filosofici occidentali, né con lo storicismo né con l’esistenzialismo.
La meditazione non ha però toni sconsolati o disperati, evitando d’impigliarsi nel genere della tragedia, sorvolando anzi a priori il problema del genere; che è il preciso motivo per cui Furyo riesce a non far riposare mai lo spettatore nonostante l’apparente semplicità del plot.
Cosa che Oshima porterà all’estremo nel suo ultimo film, per alcuni aspetti diretta emanazione di questo, Gohatto.
Chiudere sul primo piano del sorridente Takeshi Kitano, mandato a morte per uno dei paradossi di quella follia che ha nome guerra, è l’evidente tentativo di togliere di mezzo letture riduttive (quella in chiave omosessuale, tanto per cominciare) e di mantenere intatta la problematicità di un’opera che, a distanza di trent’anni, non ha smarrito un briciolo della sua carica d’inquieta ricerca da parte di uomini sensibili di un equilibrio nel mondo.

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Ha una foto di famiglia: Lang è suo padre e Fassbinder sua madre. John Woo suo fratello maggiore. E poi c'è lo zio Billy Wilder. E Michael Mann che sovrintende, come divinità del focolare. E gli horror al posto dei giocattoli. Come sarebbe bello avere una famiglia così...