Senza alcun dubbio, Foxcatcher deve rientrare nella categoria dello Sport Movie: la storia racconta della preparazione e degli allenamenti dei fratelli Mark e Dave Schultz, campioni olimpionici di lotta libera, in vista delle Olimpiadi di Seul del 1988, che si ritrovano entrambi a far parte della società sportiva del miliardario perverso e polimorfo John E. du Pont, wrestler dilettante che finanzia e allena nelle sue palestre lottatori e li porta a vivere nella sua grande tenuta con villa, in una teorica condizione ideale per concentrarsi sui propri obiettivi atletici e sportivi. La grande peculiarità di Foxcatcher, però, è quella di raccontare una storia di sport in una maniera decisamente antieroica, indirizzata a non esaltare mai lo sforzo fisico ma, anzi, a renderlo mostruoso e insensato, permeata da un senso di infinita tristezza che accompagna la visione dall’inizio fino al tragico finale. A memoria, non viene in mente nessun altra pellicola “sportiva” così tetra, cupa e antispettacolare.
Bennett Miller è alla sua terza prova dietro la macchina da presa, dopo gli eccellenti Truman Capote e L’arte di vincere, altri due biopic, in questo caso di personaggi perdenti ma certamente romantici. In modo particolare, in quest’ultimo film Miller raccontava del general-manager Billy Beane e del suo sogno impossibile di rendere grande un team di giocatori semi-infortunati o a fine carriera attraverso le leggi della statistica: il mondo del baseball veniva descritto in tutta la sua poesia malinconica, abitato tanto da personaggi cinici e senza scrupoli quanto da “pratici sognatori” come il protagonista impersonato da Brad Pitt. In Foxcatcher, invece, il mondo della lotta libera viene messo alla berlina: le vittorie non sembrano mai essere assaporate davvero, mentre la sconfitta è costantemente attesa dietro l’angolo, come se qualsiasi lottatore fosse consapevole che il corpo non tiene, che è destinato a deteriorarsi, e che è ognuno di noi è facilmente corruttibile dal richiamo del denaro, della cocaina e dell’autodistruzione.
Il centro nevralgico di Foxcatcher è il rapporto tra il fratello minore degli Schultz, Mark, e du Pont: una relazione malata, di omosessualità latente e inconfessabile, che si basa sulla sottomissione del primo stregato dalle abilità di seduzione del secondo, che si manifestano attraverso le possibilità economiche di comprare tutto, di poter fare qualsiasi cosa grazie alla propria tracotanza. Du Pont trascina Mark in una realtà spettrale, quasi irreale, algida, che non ha più niente a che fare con lo sport: l’universo di un solitario e disturbato magnate, incapace di godere anche dei momenti di gioia. A differenza del fratello, Mark è un ragazzo fragile, confuso, privo di punti di riferimento, che gradualmente si rende conto di essersi spersonalizzato. L’arrivo nel team Foxcatcher di Dave, unica sua guida umana e paterna, lo disorienta definitivamente e lo trascina alla prevedibile sconfitta. Le tensioni sottopelle, inespresse tra i tre protagonisti sono rese da Miller con uno stile asciutto, classico, che si limita ad accennare. Non ci sono scene madri, tutto è accennato, suggerito, fatto intendere.
Siamo di fronte, dunque, a un altro impeccabile film di Miller, in grado nuovamente di far esprimere al meglio i propri interpreti. Già è stato detto molto dalla critica americana della prova inquietante di Steve Carell nei panni di du Pont, riconosciuta con la candidatura agli Oscar per miglior attore, così come quella ambigua di Mark Ruffalo, un Dave Schultz umano ma non troppo. Forse, non sono state spese abbastanza parole per quella di Channing Tatum e per il suo Mark, il vero protagonista della vicenda, il volto dell’insicurezza, dell’inadeguatezza di un ragazzo qualsiasi di fronte al dovere imposto dalla società di vincere, di non deludere mai le aspettative. Nella sequenza della sua seduta di dimagrimento improvviso c’è tutta la nevrosi e la schizofrenia di una Nazione che insegue l’apparenza come unico vero punto d’arrivo.