Cous Cous

Slimane, un operaio arabo che lavora a Marsiglia, subisce una riduzione di stipendio. Con l'aiuto della figliastra decide di investire la sua liquidazione in un ristorante sul mare a base di cous cous.
    Diretto da: Abdellatif Kechiche
    Genere: drammatico
    Durata: 151'
    Con: Hafsia Herzi, Habib Boufares
    Paese: FRA, ARA
    Anno: 2007
8

A Venezia 2007, la critica fu pressoché concorde nel sottolinearlo: La Graine et le Mulet (poi ribattezzato Cous Cous dalla distribuzione italiana, con proverbiale assenza di fantasia) avrebbe meritato il Leone d’Oro al posto del meno inventivo Lussuria di Ang Lee.

Il terzo film di Abdellatif Kechiche, attore passato alla regia quarantenne con il promettente Tutta Colpa di Voltaire (2000) e poi con lo stimolante La Schivata (2004), mantiene intatta la sua freschezza anche a distanza di qualche anno, anche se sulla scorta del successivo, controverso (e poco amato), film del regista, Venenre Nera (2010), sarebbe lecito ragionare – più che sul film in se stesso – sulle modalità di ricezione da parte del pubblico colto e della critica cinematografica di lavori tanto liberi e stratificati come quelli di Kechiche. Cous Cous si chiude con lo scacco contemporaneo dei due protagonisti: Rym (la versatile e sorprendente Hafsia Herzi) è costretta a ballare lungamente la danza del ventre per intrattenere e sviare il rumoroso pubblico dei commensali innervositi dall’attesa del prelibato cous cous; nello stesso tempo, in un montaggio parallelo drammatico, Slimane (Habib Boufares, altrettanto bravo) insegue allo stremo delle forze e con poche speranze i giovani teppisti che gli hanno sottratto il motorino.

 

Slimane è sempre dall’altra parte rispetto all’azione e rispetto allo sguardo, sia esso quello della direzione del cantiere dal quale viene licenziato, sia quello della inflessibile burocrazia bancaria francese a cui si rivolge per tentare di realizzare il sogno del ristorante, sia ancora quello dei familiari con cui non riesce ad intavolare discorsi, quasi spinto ai margini da un’afasia che sembra avere origini lontane, nella sua estraneità alla vita e alla contemporaneità. Uomo d’altri tempi e d’antico stampo, Slimane è quasi il contraltare di Rym, capace di passare in un baleno da un vestito all’altro (prima di entrare nella banca, Rym indossa in pochi istanti un tailleur da rampante donna d’affari), da un’attitudine ad un’altra (si veda come riesce a toccare tutte le corde del sentimento, della rabbia, della commozione nel convincere la madre a venire alla serata inaugurale).

Eppure il loro stallo sembra il medesimo: come se il destino intrappolasse in ruoli predefiniti tanto la combattiva ragazza quanto l’attempato ex portuale. Si è parlato, non per caso, di “vinti” nel senso verghiano. La macchina di Kechiche è mobilissima, in particolare nel celebrato piano sequenza del pranzo della domenica, quando i volti, i dettagli e le emozioni si mescolano con un’onda incontrollabile di parole: a stento se ne può ricavare un senso, malgrado la dedizione estrema della regia, tutta calata in medias res. Ma la mobilità del microcosmo approcciato dal regista – che condivide un po’ dell’anima di Slimane – è solamente apparente: la tragedia su cui in qualche modo si conclude il film, è proprio quella per cui nulla cambia anche se tutto sembra mutevole, libero, modificabile. Lo stato di minorità (razziale, sociale, psicologica) non si spezza neppure di fronte ai maggiori sforzi profusi, nemmeno in presenza di un tentativo di amalgamarsi che sembra sul punto di riuscire.

La condizione di subalternità degli immigrati maghrebini, anche di lungo corso, suona cioè immutabile come una condanna: non diversamente, a ben vedere, da quella che opprime ancor più drammaticamente la Venere ottentotta del successivo, superlativo lavoro di Kechiche, che calca ancora di più la mano sull’umiliazione a cui è sottoposto chi proviene dal sud del mondo. Vero artista che muove il suo discorso sul limite pericoloso dell’ambiguità, Kechiche ha come già detto incontrato il favore dei critici per Cous Cous e la freddezza degli stessi per Venere Nera. È un chiaro sintomo di fraintendimento che non si colga, nell’ossessiva ricerca della macchina da presa di Cous Cous, la medesima violenza di sguardo del successivo film.

Kechiche mette in gioco lo spettatore, ne soppesa la disponibilità a farsi interprete, gli carica addosso ossimoricamente il peso della sua leggerezza, lo sfianca togliendo di mezzo la velleità di tenersi al di fuori della contesa. È il suo modo di dirci che non possiamo limitarci a guardare dall’alto, che siamo tenuti a reagire, ad indignarci se non a vergognarci. Che poi, alla fin fine, Cous Cous piaccia di più perché il discorso – in ultima analisi lo stesso in entrambi i film, Cous Cous e Venere Nera – suona leggero nel film del 2007 e viceversa duramente accusatorio in quello del 2010, è la riprova di quanto il cinema di questo autore rimanga relativamente incompreso, ma ricco e fecondo di sviluppi.

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Ha una foto di famiglia: Lang è suo padre e Fassbinder sua madre. John Woo suo fratello maggiore. E poi c'è lo zio Billy Wilder. E Michael Mann che sovrintende, come divinità del focolare. E gli horror al posto dei giocattoli. Come sarebbe bello avere una famiglia così...