Cinema da camera mortuaria. Difficile da immaginare, pericoloso da mettere in scena. Ma non per Larrain. Jackie era la prova del nove per il regista cileno, il suo primo film su commissione, con una co-produzione tra Stati Uniti e Cile. A Larrain è stato chiesto di dare la sua personale interpretazione del caso Kennedy, dove nel corso di 50 anni è stato detto tutto e il contrario di tutto, dai fatti ancora frutto di ricostruzione alle teorie del complottismo, ampiamente sviluppate nel Jfk di Oliver Stone. Nella fattispecie a Larrain viene chiesto di assumere il punto di vista della moglie, raccontando il dolore di una giovane vedova che deve fare i conti con una terribile mancanza, che aleggerà per sempre come un fantasma nella sua coscienza.
Larrain si muove cauto nel labirinto descrittivo, la sceneggiatura di Oppenheimer è strutturata in modo dettagliato come una partitura senza acuti, che ondeggia al ritmo di atti ben noti, puntellata dagli sguardi di Natalie Portman e di Peter Sarsgaard (uno straordinario, posato Robert Kennedy). Il cinema del regista cileno indossa per la prima volta un “abito storico” non suo, ripetendo in modo esemplare l’operazione di time machine compiuta ammirevolmente nella trilogia su Pinochet e nella cine-memoria del film su Neruda. Ma questa volta si cimenta con il racconto di un contesto non cileno, riuscendo, da non americano, a mettere subito in prospettiva la tragedia e allestendo un set-sinfonia rendendo plastica ogni sequenza, consegnando al montaggio una partitura precisissima dove gli acuti e i silenzi si mesmerizzano in modo tale da far giungere lo spettatore ad un senso di commozione rari nel cinema contemporaneo.
Di tale perfezione il film non sembra risentire a posteriori. Mancano le tonalità sporche di Tony Manero e No, ma il senso di lutto e di insensatezza della tragedia sono vivi e partecipati. Larrain segue gli eventi con un tono dimesso e rispettoso, si sofferma sugli sguardi colmi di luce di Natalie Portman cercando un’altra Jackie, forse il fantasma di un dolore che si perde tra i raccordi di montaggio. La freddezza con cui Larrain ha interpellato questa oscura pagina di storia americana fa pensare che il regista sia capace di qualsiasi cosa. Riuscendo ad imporre il proprio sguardo anche in un contesto avulso al proprio. Nel cast Natalie Portman si destreggia abilmente, perfetta in tutti i segmenti narrativi. Larrain per la prima volta ha a che fare con la direzione di un’attrice famosa, protagonista del più popolare dei franchise al mondo (Star Wars), per giunta vincitrice di un Premio Oscar (nel 2011 per Il Cigno Nero di Aronofsky, che è tra i produttori di Jackie) e il suo approccio rispetta un lavoro di sintesi e di rispetto, di deferenza e di distacco quasi glaciale.
Larrain sa gestire i silenzi come nessun altro e riduce il senso di assurdità della situazione narrata ad un’elaborazione visiva del lutto pietrificato e solenne. Cinema quasi religioso. Là dove ne Il Club volavano pugni e disperazione, in Jackie domina il contegno e una sofferta partecipazione emotiva all’enigma del dolore. Jackie prosegue in maniera del tutto coerente la linea estetica costruita dal regista cileno sulla via della ricostruzione storica (unica eccezione a questo discorso è il devastante Il Club ambientato ai giorni nostri), ben sapendo che solo grazie all’analisi di un tempo ormai passato e storicizzato si possa avere la possibilità di una ricostruzione scevra da enfasi didattiche o da ricostruzioni parziali degli eventi.