Kabul, Afghanistan, tempo presente. Una giovane donna accudisce il marito in coma dopo aver preso una pallottola nella nuca, a seguito di una sparatoria durante la guerra che imperversa nel paese. La donna si apre al marito muto e immobile, rivelandogli tutti suoi più intimi segreti.
Diretto da: Ataq Rahimi
Genere: drammatico
Durata: 102'
Con: Golshifteh Farahani, Hamid Djavadan
Paese: AFG, FRA
Anno: 2012
In una Kabul devastata una donna accudisce il marito in coma dopo aver preso una pallottola sulla nuca. Quasi l’intera unità di luogo e d’azione sono concentrati all’interno di un abitazione di fortuna, continuamente presa d’assalto dalle bombe. Non sembra esserci alcuna soluzione al susseguirsi degli eventi.
La donna parla con il marito aprendosi completamente a lui, svelandogli i suoi segreti più intimi, non avendo più paura dell’autorità maschile si abbandona alle confessioni, sradica il suo stesso ruolo di donna sottomessa al potere dell’uomo, alcune volte dimostrandosi persino meravigliata del fatto che chieda ancora il permesso di poter lasciare la stanza, avendo davanti una persona che non potrebbe comunque rispondergli.
La donna parlando e aprendosi, non è abituata al ruolo di moglie libera e a volte torna in sé, accorgendosi dell’assurdo peccato che sta commettendo, soprattutto quando parla della sua relazione con il ragazzo vergine, andando a cercare ossessivamente la copia del Corano che tiene sempre con sé, per baciarla e automortificandosi ogni volta. per aver espresso pensieri peccaminosi.
Il contesto e l’ambientazione scelti da Atiq Rahimi per Come pietra paziente (2012) si possono definire “campi di battaglia” del tutto anti convenzionali, anche se mai miseri, mai accondiscendenti verso un qualsiasi tipo di pietà o compassione. Il regista afgano piega sapientemente il ruolo della location alla narrazione, creando un modello di sintesi dialettica del tutto purista, dove la tensione dicotomica dei punti di vista avversi al quadro (moglie/marito, fuori/dentro, espressione di sincerità assoluta/silenzio allarmate), tendono fino allo spasimo il sentimento di una disfatta cognitiva, cogliendo sempre il senso di un processo in divenire: la consapevolezza, nel contesto afgano, del matrimonio come condanna, come dissoluzione del femminile nel maschile, all’interno di una società teocratica e maschilista, dove la donna rimane una pura emanazione di un pensiero maschile chiuso e barbarico.
In questo puro concentrato di effetto-cinema a controcampo chiuso (la donna parla in continuazione ad una persona che non potrà mai rispondere, nemmeno volendo), i colori e la colonna sonora generano un dispiegamento di forze, che dal visivo al sonoro penetrano in una congiuntura storica che funzioni da leva politica, per comprendere il mutamento di una prospettiva che dal maschile tenderebbe sempre ad andare verso l’annullamento ideologico del femminile: in Come pietra paziente la donna invece si libera, manifestando un processo intrinseco ad un movimento silenzioso, interiore, dove la fotografia dai colori intensi di Thierry Arbogast assume i connotati di una diaspora visiva, tra ciò che incute il timore della perdita e ciò che rappresenta la conquista del desiderio: i due poli attrattivo/repulsivi sono insiti nel lungo monologo-dichiarazione della donna all’uomo.
Nel finale l’uomo riaprirà gli occhi, obbedendo ad un modello di svelamento della colpa che porterà quest’ultimo ad un tentativo di punizione finale, nei confronti di una donna che ha tentato di ribellarsi al cappio impostogli dall’uomo-marito-animale.
Non avverrà quello che spera la donna: una riconciliazione tra marito e moglie. L’uomo rimane all’interno della sua gabbia mentale, non potendo far altro che tentare di riconquistare ciò che ormai è perduto, la vita della donna di cui lui si sente padrone assoluto.
Quello di Atiq Rahimi in questo film apparentemente minimalista, è un cinema semi documentaristico, diretto in modo spoglio, con una narrazione veloce che tende a simulare visivamente la tensione del contesto di riferimento; la poesia del suo cinema è del tutto politica se non antropologica, la sua riflessione sui ruoli morde come un’incudine severa, nel tentativo di squarciare il velo dell’ipocrisia su una tematica di cui il mondo occidentale stenta a capire le regole.
La sceneggiatura è firmata dal grande Jean-Claude Carriere (collaboratore tra gli altri di Luis Bunuel), l’attrice protagonista è Golshifteh Farahani: la sua performance rimarrà negli annali per una abnegazione di allarmante, straordinaria verità. Davvero eccezionale il lavoro di Arbogast sui colori e le scenografie; gli stacchi di montaggio servono a livellare con cesure a tenaglia il duopolio dentro/fuori, di un contesto dilaniato da una guerra che non sembra avere mai fine.
La sceneggiatura è firmata dal grande Jean-Claude Carriere (collaboratore tra gli altri di Luis Bunuel), l’attrice protagonista è Golshifteh Farahani: la sua performance rimarrà negli annali per una abnegazione di allarmante, straordinaria verità. Davvero eccezionale il lavoro di Arbogast sui colori e le scenografie; gli stacchi di montaggio servono a livellare con cesure a tenaglia il duopolio dentro/fuori, di un contesto dilaniato da una guerra che non sembra avere mai fine.