Chinatown

Nella Los Angeles del 1937 l'Investigatore privato Gittes viene ingaggiato dalla ricca Evelyn Mulwray, in merito ad un caso di omicidio collegato alla costruzione di una diga. Dovrà fare i conti con Noah Cross, Capo di Chinatown.
    Diretto da: Roman Polanski
    Genere: thriller
    Durata: 130'
    Con: Jack Nicholson, Faye Dunaway
    Paese: USA
    Anno: 1974
8.7

Il diavolo fa sempre capolino nel cinema di Roman Polanski, sia che si presenti in carne e ossa (Rosemary’s Baby Nastro rosso a New York), sia che abbia il volto calmo e pacioso di un anziano satanasso come John Huston.
Polanski e Robert Towne si misero a lavorare nel 1973 ad una sceneggiatura originale che sembra partorita da uno scrittore hard bolied come James Ellory, prendono la cittadina di Chinatown e costruiscono un covo di squali dove l’unica legge che vale è quella di Noah Cross, Grande Padre incestuoso che tiene sotto scacco la zona grazie ad una fitta rete di corruzione, nella quale sono implicati imprenditori, politici e polizia.

Il detective Gittes/Nicholson investiga sul mistero della morte di Mulwray, che aveva messo i bastoni tra le ruote a Cross, si batte contro il Sistema, come Glenn Ford ne Il Grande Caldo (1953) di Fritz Lang, va avanti nell’indagine con le unghie e con i denti, non si perde mai d’animo, ma alla fine, quando tutte le carte sono scoperte e il volto del Principe delle Tenebre si svela, anche lui deve gettare la spugna e dichiarare la resa contro il Principio Unificatore del Male, quello che Polanski mette in scena in ogni suo film, l’origine del suo cinema, l’iniziazione verso l’orizzonte di una imponderabilità del reale.
E’ così che Polanski tesse la tela del primo noir della sua carriera, il suo secondo film americano dopo il successo di Rosemary’s Baby, attraverso un mosaico narrativo che perfezionerà in Frantic (1988) e L’Uomo nell’ombra (2010), secondo le regole di un thriller da camera, che procede lento, dispiegandosi con la struttura “a morso di ragno”, con delle digressioni di violenza che sono dei piccoli capolavori di costruzione della tensione in un film altrimenti drammatico, che denuncia uno psicologismo da Oscar (che poi arriverà, per la miglior sceneggiatura a Robert Towne), dove quello che più conta è la materializzazione di un orrore quotidiano montato su un contesto di corruzione politica.
Polanski offre in questo senso un lavoro molto raffinato e obliquo, radente allo sguardo, dove il sentimento prevale sulla tendenza all’umorismo surreale, tipico del regista.
Chinatown è uguale a tanti altri noir visti negli anni ’40-’50, nessuna variazione, semplicemente, il regista di Rosemary’s Baby replica una formula precisa, quella vista in tanti classici, da Wilder a Lang, fino ad Aldrich.
Basta questo per mettere da parte l’operazione con una scrollata di spalle? Forse non ci si deve aspettare fuochi d’artificio da una traiettoria morale così chiara e ben definita, questo è un lavoro a metà strada tra la commissione e un autorialismo molto ben sott’inteso, meravigliosamente nascosto tra gli ingranaggi della macchina narrativa, che evidenzia la capacità unica di Polanski di saper dissimulare il proprio stile anche all’interno dei contesti più differenti. In pochi sono capaci di passare con tanta nonchalance dalle grandi alle piccole produzioni, sempre riuscendo a non perdere mai terreno nel grande mercato del cinema.
In Chinatown non c’è nulla di Cul De Sac (1966) o The Fearless Vampire Killers (Per favore non mordersi sul collo, 1967), e nemmeno con Le Locataire (L’inquilino del terzo piano, 1976) si ritroverà un presunto gusto per la perfezione estetica. La differenza con Frantic e L’Uomo nell’ombra è una maggior consapevolezza dei rischi corsi nella lavorazione di un film iper-classico come questo con Jack Nicholson e Faye Dunaway: variazioni, umorismo surreale, assenza di una mega produzione hollywoodiana alle spalle. La possibilità di lasciar andare l’immaginazione verso una teoria del complotto globale è una prospettiva molto più allettante.
E’ così che Chinatown dà l’impressione di aver goduto della classicità con un tocco di malvagità iperuranica incarnata dal mostro Huston, dal cui sguardo Nicholson, e lo spettatore con lui, vede il tramonto di un’epoca per l’ingresso in una postmodernità molto più ambigua e feconda.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).