L’esuberanza proscenica di Edward Lachman ha congelato un film come Carol, mélo granulare di Todd Haynes, una vera perla per gli occhi, dove la partitura temporale introduce lo spettatore nel contesto degli anni ’50. Il salto nel tempo conferisce ad Haynes lo specifico quid estetico che gli offre la libertà di comporre uno studio accurato sui modi, i toni e lo stile del tempo di riferimento. Questo dal punto di visto estetico. Sul piano narrativo ho il sospetto che Haynes non abbia avuto tra le mani una grande storia e abbia tentato di salvarsi introducendo una trovata semi-noir a metà film, quando ormai si crede che la storia abbia preso la piega del melodramma d’epoca.
A prima vista non si direbbe, ma la regia, che insegue i due personaggi nella fitta trama di amori e ripensamenti repentini, è levigata e piatta e si risveglia solo nello straordinario finale, quando è troppo tardi e il film inizia ad impennarsi quando ormai i titoli di testa scorrono. In questo contesto sono la fotografia e il montaggio a conferire ritmo al film. In particolare si può dire che proprio con Carol si ha un esempio concreto di cosa significhi montare un film con la logica di un metronomo perfetto: ogni gesto significativo, ogni primo piano, ogni respiro e risentimento viene accompagnato da una selezione di immagini che si complementano tra di loro con la precisione di una partitura senza sbavature. La dove la regia latita, il montaggio riesce magnificamente a mascherare la tendenza statica di Haynes. Il regista è esploso solo con Velvet Goldmine, dopo di che si è assistiti ad un irrigidimento verso lidi più convenzionali (a parte il sogno dadaista frammentario di I’m Not There).
La storia di Carol è molto convenzionale e tipica di certo cinema omosessuale recente. La storia d’amore senza speranza. L’ “alieno” (come la chiama Carol nel film) Therese (un’evanescente Rooney Mara, resa divina dalla fotografia di Lachman) “scende dal cielo” per puro caso. Carol la vede in un negozio di giocattoli in periodo natalizio e se ne innamora e tal punto da vedere travolta la sua esistenza, mettendola con le spalle al muro. Quello che seguirà è la dialettica tipica dell’amore contrastato, confezionato con una totale libertà compositiva, ma senza quasi mai intaccare gli occhi dello spettatore, che rimangono quasi sempre neutri rispetto alla vicenda narrata. Haynes ha rimarcato quella distanza che gli serviva per rendere il suo mélo un film sul tempo e sul meccanismo della memoria in transito in una fase temporale dove l’amore lesbico era considerato ancora un problema da psichiatria.
Forse Haynes non compie gli errori di Ang Lee in Brokeback Mountain. Non si lascia andare alla lunghezza spropositata e alla mancanza di sintesi narrativa. Carol rovista nel tempo della vergogna senza pudore, fornendo una versione dei fatti il più veritiera possibile. Cate Blanchett verso il finale viene lasciata recitare un po’ troppo ed emergono le problematiche tipiche dello stile da Actor’s Studio, solo Rooney Mara rimane del tutto impassibile, conquistandosi un posto nell’empireo delle nuove dive di Hollywood.