Un autore teatrale di successo viene chiamato a Hollywood per scrivere un film sul wrestling.
Diretto da: Joel Coen
Genere: drammatico
Durata: 116'
Con: John Turturro, John Goodman
Paese: USA
Anno: 1991
I Coen hanno perduto la loro brutalità, nel corso degli ultimi 20 anni, ma può capitare a tutti i grandi autori. Tutti i grandi autori tendono a rifare i loro grandi film, forse solo Kubrick, Scorsese, il primo Woody Allen e il primo Greenaway sono riusciti a eludere questa formula.
Per gli ex fratelli terribili del cinema americano, negli ultimi tempi è arrivata la canonizzazione estetica da parte dell’establishment di Hollywood, grazie ad opere quali Non è un paese per vecchi oppure A Serious Man e Il Grinta. Film davvero di ottima fattura. Ma basta?
Se si va a riprendere uno dei loro primi film, il 4° per la precisione, Barton Fink (1991), ci si rende conto di cosa sia la scrittura del cinema, per il cinema, la scrittura della visione, la visione furibonda di un’opera tetragona e, probabilmente, irripetibile. Neanche a Lynch e a Mann torneranno più operazioni come Velluto Blu e Manhunter Frammenti di un omicidio, ma per i fratelli Coen la questione è più spinosa.
Barton Fink non è un film perfetto, ha delle squisite mancanze, ha dei buchi abissali di script, possiede una scrittura troppo generosa, si possono avvertire nella narrazione difetti e imprecisioni di punteggiatura, alcuni personaggi sono delle vere e proprie macchiette, come ad esempio quello del produttore di Hollywood.
Barton Fink non è un film perfetto, ha delle squisite mancanze, ha dei buchi abissali di script, possiede una scrittura troppo generosa, si possono avvertire nella narrazione difetti e imprecisioni di punteggiatura, alcuni personaggi sono delle vere e proprie macchiette, come ad esempio quello del produttore di Hollywood.
Ma questa non è altro che la cifra del grottesco. I Coen lo sanno che premono il pedale sull’irriverenza, sul paradosso, sull’incubo letterario vero/falso, riescono a fare potente cinema letterario senza essere minimamente calligrafici, riescono a portare avanti quella estetica di cui William S. Burroughs si faceva primario portavoce, incentrata sulla scrittura automatica e sullo sterminio di ogni singolo pensiero razionale.
I Coen si immaginano un mondo mentale da incubo in cui i pensieri sono ganasce che appesantiscono l’autore in gabbie morali da cui non riescono ad uscire. Qual’è il significato estetico di Barton Fink? Cosa si cela sotto la sua manierata sintesi di incubi polanskiani? Forse una macchinazione che porta allo sterminio della forma, che possa convergere verso l’annullamento stesso del linguaggio del cinema.
Si torna sempre là, infine, nell’annullamento dell’interfaccia tra reale e immaginario, che è il motivo per cui il cinema dovrebbe sempre proporsi come strumento di raffinazione per la mente dello spettatore. Mostrare l’ineludibile pensiero della post concezione di un cinema limitrofo che porti la sfera dell’inconscio nella direzione di una rivelazione continuamente frustrata.
In un’opera così personale come Barton Fink, compaiono poi alcune stoccate di umorismo antisemita devastanti, decisive, veri e propri gioielli di finissima precisione estetica.
I Coen concepiscono l’universo semantico dello sdoppiamento dei ruoli come una disputa contro il sistema Hollywood, descrivendo ogni personaggio come indefinito, mostrandone il ridicolo, attraverso la sontuosa metafisica immaginaria di una mente in fiamme che non riesce a comprendere il motivo del proprio disfacimento estetico.
Con Barton Fink i Coen fanno il loro film più arrischiato, il più imperfetto, ma il migliore, il più conturbante ed elastico.