Chavez L'ultimo comandante

Oliver Stone intervista Hugo Chavez, Lula, Christina Kirchner. Stone punta il suo obiettivo su come durante l'amministrazione Bush i vari paesi siano cambiati a livello politico.
    Diretto da: Oliver Stone
    Genere: documentario
    Durata: 78'
    Con: Hugo Chavez, Christina Kirchner
    Paese: USA
    Anno: 2009
6.3

South of the border (in italiano Chavez L’ultimo comandante) a sud del confine: il titolo del documentario di Oliver Stone,  è rivelatore del contenuto e lo sintetizza come meglio forse non si potrebbe.

Come a riassumere l’ultima parte della carriera del regista, ormai lontano dalle scorribande nella Storia del suo Paese (dal Vietnam a Nixon e JFK) e da quelle nei generi (quando ci riprova, come nel recente Le Belve, gli esiti sono letteralmente da dimenticare), South of the Border presuppone un “al di qua” e un “al di là”. Di qua la Grande Nazione corrotta e in mano ai peggiori speculatori e criminali, da Bush Jr. in giù. Di là un Eldorado ancora parzialmente incontaminato a cui rivolgersi con fiducia quasi illimitata.
Presentato nel 2009 alla Mostra del Cinema di Venezia, South of the Border viene ora recuperato dalla distribuzione nostrana fidando in qualche attenzione dovuta alla morte di Chavez e alle elezioni per la successione in Venezuela.
In realtà il film di Stone serve a poco come lezione di storia contemporanea o di geopolitica. Secondo una semplificazione tipica del regista, le non poche zone d’ombra dei suoi favoriti vengono sottaciute o affrontate con il piglio di chi ha da ristabilire una verità evidente, distorta dagli avversari con argomentazioni propagandistiche scadenti quando non apertamente mistificatorie. Inutile pertanto cercare analisi equilibrate o convincenti motivazioni pro e contro Chavez e i governanti dell’America Latina che Stone va a visitare con la sua troupe.
Il regista si assume invece una parte scomoda, quella del “testimone”, inteso nel senso di colui che trasmette una testimonianza, un messaggio. Certo, le inchieste di Michael Moore hanno fatto scuola per quanto riguarda la struttura, dato che i pellegrinaggi di luogo in luogo, e di governo in governo, ricordano appunto la disposizione paratattica del documentarista di Flint. Ma a guardare da vicino, Stone si preoccupa poco di argomentare. Per lui è sufficiente l’entusiasmo del suo interlocutore.
È abbastanza poter mostrare il capo di stato in situazioni amene e simpatiche, come quando Chavez va in bici e la rompe, o come quando il presidente boliviano improvvisa qualche palleggio da calciatore dilettante. Qui si nota una certa ripetitività, che a dirla tutta è anche il limite principale dell’operazione, nonostante in un certo senso la si possa definire un pregio. Sorprendentemente, ad ogni buon conto, l’assenza di distanza critica non penalizza il film.
Probabilmente senza volerlo, Stone coglie nella filigrana del suo film, ed è per questo che l’opera funziona e ci pare significativa oltre i suoi difetti, il tratto comune dei capi di governo sudamericani da lui raffigurati: l’empatia.
Se Chavez – e prima di lui Castro – è una sorta di caposcuola, oltre che di leggenda, senz’altro lo deve alla sua capacità di entrare in sintonia immediata con gli interlocutori. Ma anche il brasiliano Lula o la “presidenta” argentina Kirchner appaiono figure schiette e popolari, svelando tratti da persone comuni e rompendo ogni ufficialità che gli ambienti governativi, in cui sono generalmente realizzate le interviste, potrebbero imporre.
Di modo che, per tornare alla dicotomia enunciata in precedenza, gli Stati Uniti appaiono come la nazione-guida dell’interesse, del calcolo, del profitto ad ogni costo (potremmo azzardare che è Satana, secondo la personale mistica stoniana), mentre l’America Latina è un’isola felice, se non proprio nella ricchezza, almeno nella concordia, nel calore dei popoli, nelle prospettive di un’alternativa ad uno sviluppo capitalistico disumano.
Importa poco che Stone non si soffermi in modo approfondito sui proventi del petrolio venezuelano o sulla reale situazione economica e sociale argentina. La visione che evoca è piuttosto quella, per usare una metafora, della partita a carte tra i “quattro amici al bar”. Come se governare fosse attività in fondo semplice, che se perseguìta secondo il buon cuore può facilmente produrre prosperità e fratellanza.
Una retorica semplice, insomma, in pratica una “vulgata”, ma di sicura presa, come dimostra ottimamente la scena in cui Chavez prende per mano gli altri leader e tutti insieme si slanciano in avanti, restando in qualche modo immortalati nella memoria di chi vede il film.
In definitiva Stone ingigantisce i personaggi proprio perché li rimpicciolisce, donandogli un’umanità che sarà sì tutta da verificare, ma che appare schietta a tutti i non prevenuti o avversari; e muove dalla forma dell’inchiesta per spingersi dalle parti della festa popolare in cui abbandonarsi più che mantenersi vigili. Sarà una maniera semplicistica di chiudere, ma almeno nei limiti di un film, il suo fascino (e la sua efficacia) ce l’ha di certo.

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Ha una foto di famiglia: Lang è suo padre e Fassbinder sua madre. John Woo suo fratello maggiore. E poi c'è lo zio Billy Wilder. E Michael Mann che sovrintende, come divinità del focolare. E gli horror al posto dei giocattoli. Come sarebbe bello avere una famiglia così...