Con questo notevolissimo e significativo documentario, presentato al 49esima mostra del Cinema Internazionale di Pesaro, dove si è aggiudicato meritatamente il Premio Cinema e Diritti Umani di Amnesty International, Patricio Guzman effettua un’operazione oculata, intelligente e al contempo di grande sensibilità, scegliendo un contesto prezioso che fa da fulcro alla narrazione, sulla base del quale sviluppa un discorso profondissimo, che sullo sfondo di immagini straordinarie e estremamente suggestive, alternanti sterminati scenari desertici, luminosissimi cieli stellati e le conseguenze disastrose della dittatura di Pinochet, identifica un unico denominatore comune in tre condizioni fondamentali della storia e della realtà cilena.
Il contesto succitato è il meraviglioso deserto di Atacama, in Cile, luogo in cui sono stati costruiti i più grandi telescopi della Terra, “unica macchia marrone” totalmente priva di umidità presente sul nostro pianeta, che rappresenta, grazie al suo clima arido e alla massima trasparenza del cielo che lo sovrasta, una miniera d’oro per astronomi e archeologi, che lo hanno scelto come sede dei loro studi, e purtroppo contemporaneamente, costituisce tristemente anche uno dei probabili luoghi in cui Pinochet potrebbe aver scaricato, dopo averli torturati e uccisi, i corpi dei prigionieri politici catturati durante la sua dittatura e poi dispersi.
Così, questo luogo incredibilmente affascinante e misterioso diventa una perfetta “porta per il passato”, un posto dal quale accedervi è più agevole che da altri, un passato che, costituendo l’oggetto principale dei loro interrogativi e delle loro ricerche, accomuna due categorie che si occupano entrambe di analizzare qualcosa che viene da un tempo trascorso, sia esso lontanissimo, come quello in cui hanno vissuto gli astri, la cui luce possiamo percepire oggi, sia esso un po’ più vicino, per quanto riguarda i reperti raccolti esplorando la terra, per studiare antiche civiltà di passaggio fin dalla preistoria; ma soprattutto è sempre un tempo passato, molto più vicino, ma paradossalmente, tra i tre, il più difficile e ostico da conservare, quello cui si aggrappano con tutta la forza e le energie che sono loro rimaste, contro la tendenza del paese a dimenticare e sotterrare una storia scomoda, le donne che dopo trent’anni ancora camminano per quelle distese infinite alla ricerca dei resti dei loro congiunti dispersi, unica possibilità per potersi riunire a loro ancora una volta prima di morire; e di loro, c’è chi si ritrova ad abbracciare per ore il piede di un fratello pur di sentirlo di nuovo vicino, e c’è chi rifiuta la mandibola che è stata ritrovata, perché non è abbastanza, perché Mario vuole riaverlo intero.
Lo strazio di queste donne, la loro necessità di tenere teso un filo che leghi i loro amati al presente, è uno dei tre sentieri, insieme allo studio dei cieli e quello della terra, che Guzman percorre parallelamente nel ragionare con grande fluidità sulla centralità del passato, e della necessità di conservarne memoria.
Un passato che rappresenta tutto ciò che siamo, tutto ciò che viviamo.
“Il presente non esiste” dice uno degli astronomi intervistati.
Tutte le esperienze della vita accadono nel passato; la luce riflessa da un oggetto qualunque, quella che ci consente di vederlo, è un segnale che tarda ad arrivare, quindi qualsiasi percezione è una cosa passata, nulla si vede nel momento in cui si guarda.
La cosa più vicina all’idea di presente è quello che esiste nella nostra coscienza. E forse nemmeno, perché anche quello che pensiamo, nel momento in cui lo pensiamo, è un segnale che tarda tra i nostri sensi.
Quindi “il presente è una linea sottilissima che se uno soffia un po’, si distrugge”
Ed è intorno a questo concetto che lavora Guzman, il passato è tutto ciò cui possiamo far riferimento per definirci, per sentirci, per esistere.
E allora è veramente un assurdo paradosso che un passato così importante continui ad essere occultato, che nonostante la gravità delle azioni che lo contraddistinguono e il dolore incommensurabile che ha provocato, ancora profondamente evidente nei solchi tracciati sulla pelle di queste donne, si possa ancora rischiare che si dissolva, che vada perduto, così come le persone che lo hanno vissuto e ne sono morte, che se ne perda la memoria.
Quando esiste chi ha misurato per mesi con i suoi passi le dimensioni dei campi di prigionia in cui è stato confinato, pur di poterne conservare il ricordo preciso, per poi poterli disegnare solo sulla base della sua memoria, pur di non perderne traccia e non poterlo testimoniare.
L’architetto della memoria, lo chiama Guzman.
O esiste chi ancora oggi si considera difettoso a causa di quel passato, che afferma di percepire chiaramente di avere un difetto di fabbrica.
Valentina, figlia di due prigionieri politici dispersi, ora madre di due bambini, e attiva lavoratrice nella principale organizzazione astronomica presente in Cile, sente totalmente suo quel difetto, ma dice anche che non lo sente nei suoi figli, e racconta anche che “l’astronomia l’ha aiutata a dare un’altra dimensione al dolore della perdita, che può diventare opprimente anche se necessario, quando lo si vive in maniera così intima; e che pensare che tutto fa parte di un ciclo, che non è cominciato, né finirà con lei, né con i suoi genitori, né con i suoi figli, che tutti facciamo parte di una corrente, di una energia, di una materia che si ricicla, come succede con le stelle, che devono morire, perché ne possano nascere delle altre, perché nasca la vita, fa sì che quello che è successo ai suoi genitori assuma un’altra prospettiva e questo la alleggerisca.”
E così Guzman chiude il cerchio, lasciando che, in assenza di risposte immediate, l’immensità dell’universo, del suo tempo, passato, presente e futuro, possa consentire un po’ di respiro, di speranza, in una storia così ingiusta e dura.
Bellissima anche l’osservazione, come testimoniato da immagini straordinariamente incisive, che vede il Calcio, essere lo stesso costituente di stelle e ossa.
Le immagini sono accompagnate per tutta la durata del film dalla sommessa voce fuoricampo del regista, e da una colonna sonora efficacissima, che attraverso il caldo suono del piano e la presenza di note acute, trasmette perfettamente il contrasto tra l’angoscia dell’assenza e della perdita, e la speranza offerta dall’infinito tempo e spazio.
Guzman firma un’opera che trasuda poesia e drammaticità, mantenendo uno sguardo lucido e severo sui fatti e sulle loro conseguenze.
Una visione di grande valore, da non perdere, che può arricchire enormemente sia in termini di sensibilità che di conoscenza.