Le Joli Mai

Documentario-inchiesta in cui vengono mostrate le reazioni dei cittadini parigini in merito ai fatti avvenuti in Algeria nel maggio del 1962.
    Diretto da: Chris Marker
    Genere: documentario
    Durata: 150'
    Con: Chris Marker, Siome Signoret
    Paese: FRA
    Anno: 1963
6.8

Il Maggio del ’62 è un mese particolare a Parigi. È la “prima primavera di pace”, dopo sette anni di guerre e tensioni dovute alla de-colonizzazione. Giusto in Aprile sono entrati in vigore i Trattati di Evian che terminano in conflitto franco-algerino. La notte tra l’8 e il 9 Febbraio, invece, c’era stato l’ultimo sanguinoso episodio di repressione in città, in cui 8 persone persero la vita per le manganellate della polizia, intrappolate nell’entrata della metro Charonne. In questa “prima primavera di pace” si cominciano a vedere i segni di una società che sta radicalmente cambiando. Arrivano le prime televisioni. Lo svago è un nuovo bisogno. Il commercio e il consumo diventano imperanti, ossessivi. Il lavoro si distacca sempre più dalla produttività, si lega sempre più all’inconsistenza. Parigi perde le sue ultime sacche si insalubrità, con interi quartieri di catapecchie che vengono abbattuti, e con le famiglie numerose che vi ci abitavano cui vengono assegnati appartamenti popolari nei moderni grattacieli. E anche le bidonville spariranno di lì a qualche anno.

Nella primavera del ’62 è arrivata da poco a Parigi un prototipo di cinepresa, la KMT Coutant-Mathot, che si promette incredibilmente leggera, poco rumorosa e capace di registrare il suono in sincrono. È una nuova tecnologia di cineprese che rivoluzioneranno il cinema documentario e che in Canada, già da qualche anno, aveva permesso a Michel Brault e ai fratelli Maysles di dar vita al “cinéma verité”. In Francia ne esistono due esemplari. Con uno di questi Jean Roch ha appena girato “Chronique d’une été”. Con l’altro il cineasta Chris Marker e l’operatore Pierre Lhomme decidono di lanciarsi per le strade di Parigi, per documentare un Maggio di sicuro fermento, una primavera ricca di germogli. Per dar vita a un «vivaio che si offra ai pescatori di passato del futuro. A cui spetterà di distinguere ciò che lascerà il segno da ciò che inevitabilmente non sarà nient’altro che la schiuma». Incontreranno un’umanità incredibile. Incontreranno personaggi così insoliti e interessanti da poter costituire ciascuno la materia di un intero film. Un’amplitudine di personalità così straordinarie che vanificano ogni tentativo di previsione dell’incontro successivo.
I due autori entreranno a contatto col il Pittoresco di Parigi, un’umanità unica e sensazionale, che sopravvive ancora oggi. Un’umanità che qualche volta capita di riconoscere anche altrove, ma che, definitivamente, non appartiene che a Parigi. Ma Marker e Lhomme non tratteranno il sensazionale e il pittoresco come i loro colleghi canadesi. Non innescheranno quel dispositivo melodrammatico tra intervistatore e intervistato, tra autore e personaggio. Cercheranno per tutto il tempo una relazione non-aggressiva con i loro soggetti. Un rapporto amabile, privo di trappole, assolto da tentativi di imboccare gli intervistati. Candida, davvero, sarà la loro cinepresa. Candide le loro domande, come sassi gettati a pelo d’acqua. Affidate a due amici dall’aria gentile, mentre Marker, defilato, controllava tutto, talvolta intervenendo, e Pierre Lhomme, libero nei movimenti di macchina grazie alla leggerezza della cinepresa e alla coerenza narrativa affidata alla presa diretta, si faceva trasportare dalle parole degli intervistati con dei chirurgici e potenti riassestamenti d’inquadratura o con delle vere e proprie danze intorno al soggetto.
Movimenti di macchina liberatori, meglio ancora che liberi, che oggi a qualcuno sembrerebbero esagerati, “cafoni”, ma dall’irresistibile fascino naturalistico. «Ho realizzato che l’operatore doveva essere tutt’orecchio e il fonico tutt’occhio» teorizza così Lhomme il pilastro della sua poetica per cui «il suono, nel cinema, è ben più importante dell’immagine». Una poetica bizzarra per un operatore, che non gli ha per questo impedito di essere uno dei migliori e più noti operatori cinematografici. Né di creare, per un documentario come Le Joli Mai, fondato sulla parola – i cui raccordi di montaggio sono fondati sul suono, delle immagini magnifiche. Come quegli inconsueti quadri di Parigi che danno respiro lirico ai due capitoli del documentario (dai titoli piuttosto ermetici: “Prière sur la Tour Eiffel”, “Le retour de Fantomas”), ottenuti per esempio dal non convenzionale utilizzo di ottiche a focale lunga per i panorami: la Tour Eiffel gigantesca alle spalle della cupola des Invalides; Place Etoile in time-lapse; l’ombra della Tour che come meridiana cade sul Pont d’Iéna.
Lhomme con la sua passione per la ripresa dei volti, per la luce naturale, con la sua sensibilità nel riconoscere nuove geometrie in una scenografia così inflazionata, per lo stile naturalistico e soprattutto per la grande capacità di aver saputo ascoltare «un’umanità che non avremmo più incontrato», meritò il titolo di co-autore del documentario. Un documentario – più che sull’attualità – sull’umano, «sugli altri», che, in conclusione, non ha le ambizioni scientifiche di altri suoi contemporanei, ma piuttosto poetiche: è una deriva nella città «che non si spiega né si scopra davanti a nessuno», Parigi, e un tentativo di coglierla attraverso i suoi volti.

A proposito dell'autore

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Nato nel 1990 in Puglia. Laureato in Lingue e Culture Straniere all'Università degli Studi di Perugia con una tesi sul webdocumentario, vive a Parigi, dove cerca di specializzarsi nel campo della scrittura e realizzazione di documentari e si tartassa il fegato con interminabili notti di birra. Con alle spalle articoli per webzines, interviste e collaborazioni al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia e IMMaginario 2.0, ha co-realizzato il webdocumentario www.lamemoriaelaferitawebdoc.com