La giuria del più importante festival cinematografico tedesco qualche giorno fa ha premiato Fuocoammare, quinto lungometraggio di Gianfranco Rosi con l’Orso d’Oro; l’Italia aveva precedentemente trionfato nell’arco di 51 anni altre 6 volte, l’ultima delle quali grazie a Cesare deve morire (2012) dei fratelli Taviani. Vale la pena riportare subito la motivazione con cui la commissione votante capitanata da Meryl Streep (e ospitante fra gli altri anche la nostra Alba Rohrwacher) ha assegnato il riconoscimento: “Film eccitante e originale, la giuria è stata travolta dalla compassione. […] È esattamente quel che significa arte nel modo in cui lo intende la Berlinale. […] Un film urgente, visionario, necessario.”
Trattare eventi di palese interesse politico con la profondità e l’autorevolezza di opere come quella presente è ciò che dichiaratamente Berlino ricerca; l’anno scorso, lo ricordiamo, aveva trionfato quell’indelebile inno alla libertà di espressione che è Taxi Teheran di Jafar Panahi, cresciuto in modo indiscutibilmente eccezionale nel cuore di un Iran oppressivo e retrogrado. Fuocoammare esplora una realtà periferica che in questi anni ai vertici sta facendo discutere troppo e agire troppo poco; torna in quei luoghi in cui aveva girato l’indimenticato collega (ringraziato anche nei crediti di coda) Emanuele Crialese, autore di Respiro (2002) e Terraferma (2011), ambientato l’uno a Lampedusa, l’altro a Linosa; propone uno sguardo di assoluta discrezione e limpidezza, attento ad ogni sfumatura che l’entroterra, la costa, la superficie e le profondità del mare aperto assumono solcati dalla presenza umana.
L’intero documentario è costruito sulla dicotomia che intreccia la fanciullezza di Samuele, figlio poco avvezzo al moto marino di un pescatore lampedusano, e l’intercettazione, il salvataggio e l’accoglienza dei profughi africani, solo alcuni delle interminabili migliaia che da tempi spaventosamente dilatati si riversano sulle spiagge dell’isola, assicurando al tempo stesso però una marcata separazione fra i diversi soggetti. Trasparente, insaziabile curiosità e speranze affidate alla preghiera, ore libere da un’inglese buffamente vernacolare, a stretto e purissimo contatto con flora e fauna, e notturne partite di calcio fra nazionali “non ufficiali” nel centro di accoglienza, mitraglie immaginarie sulle vaste distese blu e troupe di soccorritori che come astronauti in un pianeta sconosciuto traghettano gli immigranti verso la salvezza, almeno dalle bombe e dalla denutrizione.
Rosi, regista paziente, direttore della splendida fotografia e del curato sonoro, coadiuvato dall’apporto decisivo del montatore Jacopo Quadri, procede sequenza dopo sequenza e senza mai cedere all’abbozzato o al didascalico il suo studio sociale, suscitando un interesse che senza posa si vede rilanciata la (forse inaspettata) ricchezza e complessità di un sud-Italia ancora sentimentalmente legato ai valori dell’intimità e degli affetti familiari, di una comunità provinciale basata sulla condivisione, sulla vocazione marittima e sulla trasmissione di un patrimonio culturale che non smetterebbe oggi di accendere lo spirito etnografico di un Vittorio De Seta.
Il giovane Samuele ha così modo di ascoltare i ricordi della nonna, anima commovente catturata con disarmante lucidità, che dolcissima nel suo sorriso appena accennato, riflesso di una saggia disposizione interiore, sferruzza e cucina i deliziosi frutti del mare con preziosa sapienza; all’aria aperta, quanto mai lungi da distrazioni mediatiche, di fronte unicamente ad un orizzonte inamovibile, condivide con i suoi amici l’arte del lancio con la fionda, motivo per cui si deve rivolgere ad un medico che lo aiuti a stimolare l’occhio “pigro”, quello che chiude sempre per prendere la mira. Questo stesso medico, in un mondo apparentemente parallelo, combatte altresì per restituire la dignità, alle volte addirittura la vita, a quegli uomini che meritano tutti i suoi sforzi di uomo e fratello e tutto il suo rispetto, si tratti di guarirne in qualche maniera le gravissime ustioni da nafta, procurate in stive che nulla hanno di dissimile rispetto a quelle dell’obsoleto (?) commercio triangolare, o di ispezionare i cadaveri ormai irrigiditi nella loro straziante, muta fisicità.
Alla musica, rigorosamente intra-diegetica, vengono da un lato affidati i ringraziamenti al Dio misericordioso, che sopraffacendo l’ignobile razzismo dei fondamentalisti e dei loro simpatizzanti, responsabili di incalcolabili morti fin dalle traversate del Sahara, alcune delle quali compiute solo ingurgitando le proprie urine, dall’altro il ruolo di accompagnamento costante fornito dalla stazione radiofonica locale, il cui variante palinsesto è fedelmente seguito da un’anziana signora umilmente devota al culto mariano e dei santi.
Fuocoammare, nella sua intricata, ammirevole architettura di rimandi, cadenzato da lenti ed essenziali movimenti di macchina, diviene così il barlume lontano dei razzi di segnalazione lanciati in cielo ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, il titolo di una canzone folk dedicata ad un caro consorte, l’astrazione mentale di un inferno quotidiano che abbandona esanimi montagne di carne bollente, le quali a quanto pare ancora non bruciano abbastanza nelle coscienze di tanti boriosi raccomandati e avidi vitaliziati.