Il cinema documentario oggi ha una forza tellurica che ricorda il cinema di fantascienza e al cinema horror degli anni ’90, soprattutto in film come L’esercito delle 12 scimmie, Strange Days, eXistenZ, Il Seme dela Follia, Pasto Nudo, e altri. I documentari di Michael Moore fanno pensare che chiunque potrebbe farli, nei suoi film si dicono cose che in molti sanno, ma che nessuno dice. Quindi è come se non le sapesse nessuno. Il Michael Moore di Capitalism: a love story è importante, giusto, bello proprio per questa puntualità intrinseca e, rispetto ai precedenti film, più arrabbiati e di parte, ha il pregio di una rispettosa divulgazione dei fatti, la ricostruzione meticolosa di una realtà che sfugge ai più. Cosa sono i derivati? A Moore glieli spiega una persona che ha lavorato a Wall Street per 15 anni, e lui rimane con un’espressione confusa ed assorta.
La sua espressione è quella dello spettatore, che piaccia o meno. Perchè i derivati non sono altro che formule di equazioni, logaritmi, espressioni di una matematica che è solo per iniziati. Forse anche Capitalism è un film solo per iniziati. Il guaio con Moore è sempre stato questo: se si è in linea con le idee del “populista/agit-prop” Moore allora si avrà interesse a seguire un suo film, se no si potrebbe avere qualcosa da ridire. Moore non mostra tutte le opinioni e questo potrebbe essere discutibile. Ma l’impostazione di Capitalism è differente. Stavolta Moore tenta di spiegare in maniera molto pacata il tracollo della Borsa, iniziando da Roosvelt e arrivando a Obama.
Il discorso di Moore si sofferma al solito sulle implicazioni sociali della crisi, ma sembra come aver assorbito tutta la cattiveria (fuori luogo) di Fahrenhiet 9/11, concentrandosi sulla mole di dati che ha portato il mosaico dell’economia americana e mondiale a trasformarsi nel “Trionfo della morte” di Bruegel, rivoltando da ogni angolazione il punto di vista dell’oggetto soggettivato. Facendo questo riesce a dimostrare la completa assenza di democrazia del Congresso U.S.A. Moore, con la sua intemperanza da orso Yoghi (lo ha definito così Federico Ferrone nel libro su Moore pubblicato per il Castoro), ha avuto l’ardire di far arrivare il documentario dove non era mai stato: in testa al box-office, con tutti i dubbi possibili sulla legittimità morale della messa in scena (la famosa scena in Fahrenheit 9/11 della madre che piange per la morte del figlio nella guerra in Iraq, usata malamente da Moore come espediente ricattatorio per mandare a quel paese Bush), e con tutte le virtù mitopoietiche della grande inchiesta impostata con un sarcasmo che non si ritrova da nessuna parte (la scena sempre in Fahrenheit 9/11 del Senatore appena eletto che fa il giuramento su una pila di Bibbie nonostante si sia fatto battere da un candidato morto). Chi gli volta le spalle poi non venga a piangere se non comprende il ruolo del Grande Burattinaio che ha fatto piombare gli U.S.A e il mondo intero nella Seconda Grande Depressione.