In un futuro imprecisato, l'umanità è stata spazzata via da una catastrofe nucleare. Un uomo che ha dei ricorrenti flashback di un omicidio, viene inviato nel passato per scoprire la causa della catastrofe.
Diretto da: Chris Marker
Genere: sperimentale
Durata: 28'
Con: Etienne Becker, Jean Negroni
Paese: FRA, GER
Anno: 1962
La Jetée, opera del ’62, rientra finalmente in un genere. O meglio, rende necessario a questo punto l’introduzione di un nuovo genere: il cinéroman. Un film cioè composto da un diaporama di fotogrammi, da catture di riprese, che rimangono sullo schermo per qualche secondo. Erroneamente considerato in italiano come “fotoromanzo”, il cinéroman è giusto l’opposto.
Come spiega Philippe Dubois, il fotogramma è il contrario della foto: la foto è un istante, il fotogramma è l’istante che dura. “La Jetée”, sempre per usare una felice definizione di Dubois, è «la vita di un uomo condensata in un fotogramma paradossale».
Questo film sul paradosso temporale, sulla vertigine del tempo, della memoria, del ricordo, ruota intorno a una stessa scena di morte mostrata due volte – all’inizio e alla fine del film – da due punti di vista diversi.
Una scena enigmatica, che ossessionerà il protagonista che vi assistette da bambino, anche per la presenza, nella sequenza del suo ricordo, dell’immagine di una donna bellissima e sconvolta. Una donna che vorrà a tutti i costi ritrovare. È non nella donna, che sta la particolarità del ricordo ossessivo di questo omicidio, ma nella vertigine del suo paradosso.
Un paradosso che si rivelerà solo nel finale, nell’evento vissuto due volte. Come dichiarato più volte dallo stesso autore, La jetée è una rilettura personale di La donna che visse due volte (1958) di Hitchcock, ma anche occasione per le sue meditazioni sul caro tema della memoria. Come in “Vertigo” il protagonista è ossessionato dall’immagine-ricordo di una donna, con la quale – l’immagine – tenta di ricongiungersi, reintegrarsi.
Ed è per causa di questo vivido ricordo, ritenuto sufficientemente forte da prendere saldo contatto con la dimensione del passato, che gli scienziati scelgono il nostro eroe come cavia, come viaggiatore spaziotemporale per salvare l’umanità dalla catastrofe.
È una metafora del cinema quel viaggio da immobile, il viaggio del tempo, onirico, virtuale, che il protagonista compie con il corpo fremente ma incollato agli spinotti della sua postazione, sotto il controllo degli scienziati? D’altronde, quegli stessi sotterranei di Parigi in cui si svolge la scena saranno gli stessi che ospiteranno le bobine degli archivi della Cinémathèque… Tornando a “Vertigo”, alcune immagini del viaggio del tempo combaciano addirittura con quelle del film di Hitchcock. La scena del dito che indica i cerchi nella sequoia, al Jardin des Plantes.
L’immagine del viso della donna finalmente ritrovata nel passato, la cui sagoma corrisponde, a volerla sovrapporre, con quella di Madeleine nel film del ’58. Non sarà in un certo senso, questo viaggio nel ricordo, l’ossessione personale di Marker, il suo ricongiungimento vertiginoso – si direbbe proustianamente, attraverso Madeleine – con un’immagine d’infanzia, quel “Vertigo” visto a vent’anni per 19 volte? Un’ossessione che lo portò poi a recarsi su tutti i luoghi di quel film, a San Francisco, come racconta in Sans Soleil (1983). C’è poi tutto un vortice di rifacimenti e ispirazioni, che ha come occhio della spirale “Vertigo”, e come cono amplificatore La jetée.
Oltre alla dichiarata ed esplicita ispirazione di Terry Gilliam, che con L’esercito delle 12 scimmie (1995) ne ha realizzato sostanzialmente una remake – come a sua volta fece Marker rileggendo in questo modo Vertigo, sono molte altre le opere cinematografiche che devono la genesi a La jetée.
Matrix (1998) dei fratelli Watchowski, ad esempio, che riprende pure lei tutto il dispositivo di viaggio virtuale, di postazione con spinotti, di apocalisse, di vita sotterranea, di ricerca dell’eletto ecc. E ancora il filone del cyberpunk che considera La jetée come una proto-opera fondativa, che ha ricongiunto certe istanze alla fantascienza.
È questo, in fondo, il gesto di Marker nel suo cinéroman: l’aver mosso la vertigine e la virtualità del tempo e della memoria da un piano speculativo classico (com’era ancora il “Vertigo” di Hitchcock) a un piano moderno, fantascientifico, popolato delle angosce e ossessioni apocalittiche della civiltà atomica.