Le vicissitudini di quattro adolescenti, Rob, Maggie, Claudia e Scott, durante la loro ultima notte d'estate alla periferia di Detroit. Le loro speranze, i loro sogni, le loro prime esperienze d'amore vissute in un'età in cui tutto diventa magico.
Diretto da: David Robert Mitchell
Genere: commedia
Durata: 96'
Con: Claire Sloma, Marlon Morton
Paese: USA
Anno: 2010
Il film di Fritz Lang non c’entra nulla, non c’è alcun omicida seriale che terrorizza la città, però il titolo di uno degli ultimi noir americani del maestro viennese riesce ad evocare l’atmosfera sognante di The Myth of the American Sleepover (2010) (Il mito (tutto) americano del pigiama-party). L’esordio di David Robert Mitchell è etichettabile senza indugi come classico film indie americano “da festival” – volendo usare una brutta e abusata espressione (e forse priva di senso).
The Myth of the American Sleepover, è stato presentato al Torino Film Festival nel 2010, mentre all’edizione 2014 del Festival di Cannes è stata presentata l’opera seconda del regista, il teen-horror It Follows, molto apprezzato da certa critica nostrana. Questo The Myth of the American Sleepover, invece, è un classico coming of age. L’occhio di Mitchell, mai freddo, ossessivo e compiaciuto, segue in maniera discreta ed empatica un gruppo di adolescenti, tutti a loro modo protagonisti della vicenda narrata durante la notte che precede l’inizio delle scuole.
I ragazzi e le ragazze del film incarnano in qualche modo varie fasi: dalla pre alla post-adolescenza, e tutto ciò che sta nel mezzo. I giovani protagonisti vanno incontro, mossi da una sana curiosità affettiva-sessuale placidamente, senza alcuna fretta(apparente?), a dolci sorprese e (formative) delusioni in una notte che sembra fuori dal tempo e dallo spazio. The Myth of the American Sleepover ha un incedere ipnotico, morbido nella forma, mai urlato, senza di fatto alcun climax, perlomeno “a voce alta”.
La forza del film di Mitchell sta tutta nella mano con cui il bravo regista ritrae con ampio respiro i suoi giovani protagonisti, cui riesce a far esprimere tutto, senza in fondo far loro dire niente. Niente che venga sottolineato magari attraverso scene madri, in cui il volume si alza per paura di non essere capiti, che avrebbero provocato improvvisi e fastidiosi strappi all’andamento sospeso e quasi onirico di una narrazione e di un’opera tutta sincera e toccante, che sa di vero. Per fortuna c’è ancora qualcuno che parla (quando è il caso) sottovoce, e bene.