Stabiliamolo: Joy di David O. Russell è un film da establishment hollywoodiano, in cui il talentuoso regista conferma il proprio trend, in leggero ribasso, di artigiano provetto e manifattore di storie brillanti, esagerando un po’ nel luccichio stilizzato e nell’affidarsi alla luminosità della star protagonista, Jennifer Lawrence. Non ci si annoia, ma come volevasi implicare la storia dell’inventrice del miracle mop – “mocio”, dalle nostre parti – funziona meglio quando si propone come corrosiva commedia surreale anziché come addomesticata parabola femminista.
Surreale, ad esempio, è il prologo di vago sapore lynchiano: la ripresa in bianco e nero di un gruppo di attori in una burrosa soap opera d’epoca, che s’indirizzano innaturali battute non tanto l’un l’altro, quanto a destra e manca, nel limbo televisivo in cui finirà, dopo travagli e battaglie, anche la protagonista Joy Mangano per vendere la super-scopa. È un mondo vagamente onirico, un carillon che gira come i set rotanti delle televendite – non a caso, presentate per lo più dalle stelle delle soap: truccatissime, agghindatissime, fintissime.
Lei, Joy, è vera, invece: madre single di tre figli, famiglia disfunzionale con madre pseudo-malata che vive a letto (vedendo soap, ovviamente), ex marito aspirante Iglesias che si esercita nei vocalizzi in cantina, padre divorziato un po’ svitato (De Niro, ancora ovviamente). La nonna è la sana matriarca che la incoraggia a seguire i sogni – tra truffatori, maschilisti e parenti bislacchi, anche acquisiti (la neo-matrigna Isabella Rossellini), ed insperati alleati (Bradley Cooper, smagliante e solidale manager televisivo). Si capisce, insomma, anche a raccontarlo, che l’effetto è un po’ quello di un voce che grida nel deserto, e per meglio intenderci, stile Lisa tra i Simpson.
Questi sono i Manganos, in effetti, insinceramente divertenti: si spiega così l’isolamento di Jennifer Lawrence e la virata di David O. Russell dal film corale allo scintillante assolo della propria versatile protagonista, circondata da freak e sagome da sit-com. Questo spiega, altresì, perché in fin dei conti, la mitizzazione dell’inventrice del mocio sia troppo ripulita per risultare convincente. Per quanto ammirevole, la statura del personaggio non poteva essere declinata in una storia con l’epica di una Erin Brokovich o di qualsiasi altra eroina da biopic. È stato forse meglio non prendersi troppo sul serio, ridacchiando di questa follia che striscia dentro la norma di un mondo alla Norman Rockwell: piace l’assolo della Lawrence, diverte la banda, ma l’effetto favoletta, inevitabilmente, non è poi così rock.