Tutto nasce e muore negli anni ’80. Damien Chazelle lo sa e prende spunto da questo assunto per comporre con La La Land la sua elegia di un passato perduto trapiantato nel mondo di oggi, dove non c’è spazio per nostalgie e risentimenti per un tempo ormai estinto. L’assunto del film è identico a quello del film precedente del giovane regista (probabilmente diventerà il più giovane cineasta americano a vincere l’Oscar, rompendo così la serie dei 6 anni consecutivi in cui un regista USA non ha vinto la statuetta per la miglior regia), Whiplash (2014), dove il rimpianto per agli anni d’oro del jazz si fondeva con la necessità di un addestramento semi-militare dei nuovi musicisti. Whiplash era un autentico gioiello parzialmente rovinato da un insensato e insopportabile overacting, che surriscaldava la macchina narrativa fino a far ribollire i conflitti.
Un vero peccato. Così Chazelle ha assassinato il suo film d’esordio, un dramma serratissimo dove script, regia e montaggio costruivano un perfetto simulacro di una danza mortale, purtroppo accesa da performance troppo sovraesposte per ottenere una gusta calibratura di emozioni primarie troppo urlate per essere vere. In La La Land Chazelle non si sogna minimamente di surriscaldare il motore narrativo. L’impostazione della commedia sentimentale è del tutto raffreddata da un’ironia sottile, a tratti pungente, sempre sorprendentemente delicata, quasi a voler sfiorare personaggi volitivi ed aerei, che solo alla fine diventano elementi di un trattato filosofico su un destino cieco che premia più gli istinti che le reali volontà. Il gusto estetico di Chazelle in La La Land ha un misto di innamoramento vintage e quindi di perenne ricordo trasognato, misto ad una freddezza compositiva, da cui si denota un controllo totale di una partitura intensa ma sempre soffusa, dove i sentimenti sono tenuti ad una distanza quasi aerea e del tutto invisibili all’occhio.
Chazelle riporta il musical ad una dimensione terrena e del tutto architettonica: come in Whiplash script, regia e montaggio codificano un mondo narrativo perennemente in bilico tra sogno e realtà, la forma si fonde nel contenuto senza che i personaggi vengano affogati in un mondo narrativo dove l’autorialismo sia preponderante al plot narrativo, come accadeva nei musical più autoriali, come Dancer in the Dark, dove la storia di Selma era comandata dall’alto dall’estro registico del demiurgo Von Trier; come in Moulin Rouge! dove il dramma di Satine era affogato nello stile sovraeccitato e ultra kitsch di Luhrmann; come in Sweeney Todd, dove la storia della vendetta del barbiere di Fleet Street veniva condotta da Tim Burton in una sontuosa sinfonia di morte sulla rivincita violenta dell’individuo rinnegato dalla società.
La La Land è un’opera decisamente più leggera e scanzonata e, allo stesso tempo, dotata di una calma irrequieta tale da rendere la sintassi narrativa fluida e plastica. Chazelle sa che il cinema è un regalo da offrire al pubblico, non c’è bisogno di pugni in faccia estetici per imporre un’estetica autoriale. Il mondo narrativo di La La Land si lascia guardare con una certa grazia, senza mai eccedere, senza che le lacrime prendano il sopravvento e senza rimanere un esercizio di maniera. Un meccanismo audace ed elegante. Chazelle dimostra che si può ancora rinnovare un’immaginario estremamente consumato, il tempo forse gli darà ragione e lo consegnerà ad una memoria duratura.