La tradizione continua, un film all’anno dal 1982. Woody Allen lascia ancora una volta il suo inconfondibile tocco in un film iperautoriale, riconoscibilissimo, classico, dove il genere della commedia si fonde con il prefilmico e il postfilmico, dove l’aspettativa per una nuova opera alleniana è strettamente connessa alla memoria di quanto visto precedentemente. Si tratta di un flusso senza soluzione di continuità, dove all’autore Allen non serve neanche più la stimmate dell’originalità per attirare un pubblico che sa esattamente cos andrà a vedere. Il surplus visivo se ci deve essere casomai lo si ritrova nella fotografia (di Vittorio Storaro) che da sola trasforma una partitura anonima come quella di Café Society in un mosaico vivo e ascendente, prosaico, pieno di doppi e di lungaggini discorsive e di battute sull’ebraismo.
Basta e avanza per riportare lo spettatore ad un antico mondo, dove la visione possa determinare lo scacco temporale teso a “riportare indietro le lancette dell’orologio” come dice Kirsten Stewart in una battuta, esemplicificazione niente affatto narcisa di un’ideologia votata alla ripetizione del gesto cinematografico, del riprendere l’universo più canonico del romance per lasciarlo attraversare dalle onde emotive di un cinema del tutto autistico e automatico che si fa da sé. però c’è automatismo e automatismo. Anche Spielberg rifà sempre se stesso. Il ponte delle spie e The Hateful Eight sono perfette riproposizioni di un canovaccio ormai collaudato, e poco importa che il film di Spielberg sia molto più posato e granitico rispetto alla nota stonata lunga tre ore di Tarantino. E’ dai tempi di Midnight in Paris che Allen ormai rifiuta il vicolo cieco del cinismo fine a se stesso di Harry a pezzi e La dea dell’amore per ritrovare un incanto parossistico e geniale (dimenticando la parentesi romana di To Rome With Love): per cui con Midnight in Paris-Blue Jasmine–Magic in the Moonlight–Irrational Man-Café Society si diviene a delineare una sorta di costruttività spazio-temporale dove l’autore dimostra di aver appurato per lo meno l’indispensabilità di una fotografia pregna di significati e di allusioni.
Un cinema di sicuro rinchiuso in sé, tranquillamente votato all’autoparodia. Con Café Society si ha a che fare con una macchina che, una volta acceso il motore, l’andatura inizia un movimento a tentoni, sempre sul punto di spengersi, nell’affannosa ricerca del ritmo giusto, che non arriva mai. Café Society una volta iniziato si protrae stonato e brillante, come un libro che si vorrebbe mettere da parte eppure da ogni parte da cui lo si gira rivela sempre qualcosa di nuovo. La pedanteria autoriale ha rivelato il genio suo malgrado? Allen può far scattare il gioco dell’interesse da un momento all’altro. E anche la vicenda sentita un milione di volte della storia d’amore appena accennata e mai vissuta, e da sempre rimpianta, tra Bobby (Jesse Eisenberg) e Vonny (Kirsten Stewart), finisce per affascinare per puro caso, al di là di tutti i precetti prefilmici e postfilmici.