Le vicissitudini dei componenti della famiglia Jordan, tra quotidiane frustrazioni, inquietanti squallori e tentativi di raggiungere un'improbabile felicità.
Diretto da: Todd Solondz
Genere: drammatico
Durata: 98'
Con: Shirley Henderson, Charlotte Rampling
Paese: USA
Anno: 2009
Todd Solondz, a undici anni da Happiness, torna ad occuparsi delle tre sorelle Jordan e di tutto ciò che ruota attorno alle loro vite con un sequel piuttosto sui generis, Life during wartime (Perdona e dimentica, titolo sicuramente più banale affibbiato dalla distribuzione italiana).
Il geniale autore americano, un indipendente duro e puro distante anni luce dalle pratiche hollywoodiane, lo mette in scena con un cast completamente diverso. Come a dire tutti diversi, ma in fondo per nulla cambiati; un po’come in Palindromi, in cui la bambina protagonista veniva impersonata da attrici di diverse età ed etnia, e addirittura da un ragazzino.
L’umanità rappresentata dal regista è fatta di uomini, donne e anche bambini alle prese con dolori, fallimenti e successi, anche quest’ultimi fonte di disagio (la sorella di mezzo Helen, scrittrice affermata, è ugualmente insoddisfatta, infelice, inadeguata alla vita, come tutti gli altri); la sorella minore Joy non fa altro che lasciare cadaveri dietro di sé; Trish, la maggiore delle tre, madre di famiglia, invece, (un filo meno insopportabile rispetto ad Happiness), tenta di rifarsi una vita in seguito alla rottura col marito, psichiatra pedofilo incriminato e finito in carcere alla fine del precedente film.
Quest’ultimo, rilasciato dopo undici anni di reclusione, decide di andare a trovare il figlio più grande al college per accertarsi che non abbia le sue stesse inclinazioni sessuali: questo è tutto ciò che rimane al dott. Maplewood.
Il suo personaggio, come nel precedente film, è quello che suscita maggiore compassione, e che forse merita più di altri il perdono: è l’unico ad aver tolto completamente la maschera, a porsi oramai senza più alcun filtro, costretto a vagare come un fantasma per l’eternità. Non a caso nell’ultima scena del film lo vediamo attraversare lo spazio dell’inquadratura sullo sfondo e dissolversi letteralmente nel nulla.
La notevole penna di Solondz, affilata come un rasoio, va a scavare ancora una volta senza alcun pudore, come suo solito, ma rispetto al passato con un calore maggiore verso la fauna a cui dà vita; forse perché è tempo di cambiare, di evolversi, anche per lui. Insomma col passare degli anni, è ulteriormente cresciuta la sua empatia verso personaggi, alcuni davvero piccoli e insignificanti, ma lo stesso meritevoli di compassione e, perché no, di amore.
E questo è riscontrabile anche visivamente in una fotografia più calda, elegante e partecipe anch’essa alle vicende narrate dal geniale autore del New Jersey. Insomma un approccio davvero fuori dal comune che lo rende un autore indipendente, ossia completamente slegato dai canoni del cosiddetto cinema indie a stelle e strisce, che tende sempre a smussare gli angoli in modo da rendersi presentabile alle grandi platee internazionali.
Solondz di ciò se ne frega: seppur più compassionevole rispetto al passato (e non per questo più indulgente, sia chiaro), mette in scena dolori, rabbie e frustrazioni col suo peculiare tocco, col suo personalissimo umorismo nero e acido per nulla conciliate, tirandoci per l’ennesima volta un bel pugno nello stomaco.