Guido Mauri è un ladro professionista che vuole vendicarsi dopo l'arresto e la condanna per rapina. Una volta uscito di galera farà di tutto per accaparrarsi il bottino in diamanti, destinato al boss che lo ha incastrato.
Diretto da: Fernando Di Leo
Genere: thriller
Durata: 110'
Con: Claudio Cassinelli, Barbara Bouchet
Paese: ITA
Anno: 1977
Una bottiglia di J&B, sul tavolino, un pugno di cicche semifredde nel posacenere. La linea telefonica, invece, è fumante, e a Guido (Claudio Cassinelli) arriva una chiamata: il colpo si fa. Appunto, scotta il telefono: qualcuno avvisa la polizia, la rapina commissionata da Rizzo (Martin Balsam) fallisce. Guido finisce in gattabuia dopo aver coperto a revolverate la fuga del complice (Roberto Reale): quando l’amicizia conta più di 40 milioni.
Cinque anni dopo, c’è sempre l’amata ad aspettarlo (Olga Karlatos), e qualche conto da regolare con chi aveva avuto la lingua lunga. A meno che qualcuno non giochi d’anticipo: il bus sul quale viaggia la coppia, di ritorno dal carcere, viene assalito dai soliti ignoti in passamontagna. Lei muore, lui è ancora più convinto di una cosa: ci sarà sangue.
Da tempo la fama di Diamanti sporchi di sangue di Fernando Di Leo è stata sporcata da un’osservazione in apparenza trasparente: si tratterebbe, dicono le talpe ben informate, d’un remake ambientato a Roma ma malriuscito di Milano Calibro 9 (1972) dello stesso regista. Opacizzato dal confronto scomodo col film del ’72 con Gastone Moschin, l’opera di Di Leo di sei anni dopo è apparsa carente tanto in originalità quanto in effettivo turgore drammatico.
La recente rassegna romana al Cinema Trevi (27 – 30 novembre 2013) in onore dell’autore, ribattezzata Un pugliese a Roma, dà l’occasione di reindossare il monocolo da gioielliere delle analisi più attente.
E non tanto per un expertise da sdoganatore, quanto per un’onesta restituzione – nel bene e nel male – di carature ed impurità nei confronti d’un film che non appartiene alla gioielleria pregiata di Di Leo, ma nemmeno può declassarsi a bigiotteria commerciale.
Come tutti i film: chiederebbe d’esser capito. Vero, allora, che col noir-poliziottesco d’ambientazione milanese Diamanti sporchi di sangue condivide una serie di affinità: da quelle estemporanee, come la presenza di Barbara Bouchet, sempre nel ruolo di ballerina in un night che puzza di doppio gioco, e persino introdotta con la stessa epifania discotecara, nella stroboscopia delle riprese che impazziscono dal basso e in diagonale; fino a più sostanziali analogie di soggetto, con la storia del reduce di galera che sospetta d’esser stato fregato e finisce al centro d’un ambiguo gioco malavitoso. È palmare che al film non appartenga la stessa verve del proprio omologo, ma non è un semplice affare di confronti critici: soppesato nella propria autonomia espressiva, Diamanti sporchi di sangue è un film leggerino, o meglio, pesantuccio, appena andante nel ritmo, abbastanza artato nei trapassi, poco convincente in alcune delle interpretazioni.
Tra queste – e pesa maledettamente – ci sarebbe quella di Claudio Cassinelli, piuttosto imbambolato – o, a volerlo salvare, semplicemente inerte come “l’uomo d’acciaio” che è chiamato ad impersonare. Di contro – e il promemoria non guasterà a chi si è voluto ostinare, come un carpentiere di recinti di genere, a dire a tutti i costi “noir” anziché “poliziottesco” – la figura del commissario impotente, interpretata da Vittorio Caprioli, è fin troppo sopra le righe, marcatamente dialettale, tipicamente nostrana, pericolosamente macchiettistica in certi sfoghi.
La polizia, insomma, sta a guardare – ma dato il contesto, a volte parla pure troppo. E il contesto, appunto, è quello d’un film da assolvere con la condizionale, perché volutamente tutto d’un pezzo: una storia di uomini d’onore, di buoni e cattivi con la pistola, con la legge tagliata fuori a favore della legge del taglione, ed il taglio grezzo, così alla buona, che tutto sommato si lascia apprezzare per l’umore – questo sì da noir – di una giustizia privata che deve fare il suo corso, di un codice malavitoso che procede per scatti, cavilli e zampilli di sangue da underground autoregolato.
La popolazione dei bassifondi s’impreziosisce, poi, con la figura di Tony, in qualche modo riassuntiva di pregi e difetti del film: un Pier Paolo Capponi con l’abusato intercalare di gergo (“conforme!”), tutto schiaffetti sulla guancia, gestualità da scagnozzo con la mano sulla fondina, ma pronto a pagare il tributo del rispetto agli antagonisti con gli attributi (vedasi Mario Adorf in Milano Calibro 9).
È sua la scena nella sequenza cult, con la “crocifissione” al muro a danno del malvivente che non vuole cantare. E suona benissimo, lungo tutto il film, l’intonata colonna sonora, degna dei fasti del cinema italiano di genere degli anni ’70, di Luis Enríquez Bacalov, che contrappunta più d’una scena d’azione, come la sincopata rapina con sparatoria d’apertura.
Diamanti sporchi di sangue di Fernando Di Leo, dunque, nella propria dimensione senza sgrezzature, lavora sulla durezza, quella dei propri protagonisti, inossidabili alle sfumature, e quella del proprio andamento narrativo, prevedibile ma nervoso nell’urgenza del proprio tracciato obbligato.