Ricorda Ryan O’Neal, protagonista di Barry Lyndon: “Una volta, quando (Stanley Kubrick, ndr) era davvero bloccato, ha cominciato a sfogliare un libro di riproduzioni d’arte del Settecento (…) ha trovato un quadro, non ricordo quale, e ha messo in posa Marisa Berenson e me esattamente come se fossimo in quel quadro”.
Non è difficile credere ad O’Neal rivedendo il film di Kubrick. La natura pittorica dell’immagine è tangibile quasi ad ogni inquadratura e la maniacale acribia con cui il film è stato girato è avvertibile in ciascun singolo frammento. Tanto che la cosa più improbabile (e inutile, per le ragioni che vedremo) di fronte a Barry Lyndon è eccepire qualcosa sulla realizzazione. Parlare di certosina ricostruzione d’epoca, con riprese pazientemente attese in base alla luce naturale (quella in interni permessa solo da candele e lumi ad olio), rischia inoltre di non dare il senso dell’impresa, consentita da innovative lenti Zeiss e da nuove macchine da presa. In realtà, si può pensare che Barry Lyndon sia soprattutto il film che Kubrick girò in seguito al naufragio delle speranze di poter filmare il suo Napoleon, vagheggiato biopic con Jack Nicholson nei panni del Bonaparte. Cambiando il soggetto con il meno impegnativo romanzo di Thackeray, Kubrick ottenne il risultato di rimanere fedele al progetto di un film storico, che cogliesse dunque lo spirito e il “paesaggio” di un mondo ormai spirato, quello del XVIII Secolo. Il caratteristico inizio di molte sequenze, che partono dal particolare per arrivare al generale attraverso straordinari carrelli all’indietro, sta peraltro a confermare il senso ulteriore dell’ispirazione kubrickiana, cogliere il dettaglio nel più vasto insieme.
Questo aspetto dà forse conto dell’insolito (ma in certo modo illuminante) sviluppo di Barry Lyndon, che dal punto di vista del racconto pare procedere invece in senso contrario, dal generale al particolare. La storia di Redmond Barry, intrigante quasi inconsapevole della sua mediocrità che raggiunge una piccola ribalta grazie alla sua determinazione nel rincorrere lo status di nobiluomo, è la sineddoche del tempo in cui vive. Non è il personaggio che vive la storia (o la Storia, se vogliamo) e ne è artefice, come avremmo potuto vedere in un romanzo, quanto la storia a plasmare il protagonista, a renderlo tale “solo” nel suo vissuto. Barry si trova a destreggiarsi tra gli eventi che gli accadono, alcuni dei quali di grande rilievo storico, spinto esclusivamente dal suo ottuso anelito di scalata sociale. Non si rende conto, da dozzinale avventuriero, della maniera in cui il mondo che lo circonda ne orienta infine integralmente le aspettative, i sogni, le scelte pratiche. Non si tratta, si badi, soltanto di pessimismo, il consueto pessimismo del cinema di Kubrick. Ma anche di quella che chiameremmo una suprema “incongruenza”. Barry Lyndon coglie infatti con precisione questo aspetto, che l’agire del singolo può essere totalmente indifferente nella Storia, per quanto la Storia medesima sia fatta dell’azione di milioni di individui devoti a un ruolo nella loro esistenza.
È questo il verosimile motivo per cui il film ebbe così scarso successo di pubblico all’epoca, malgrado la vicenda di Barry sia tanto drammaticamente universale. La chiarezza e la violenza con cui Kubrick riesce a rendere simultaneamente il dettaglio e il disegno d’insieme è esattamente il contrario di quella sequela di tableaux vivants che molti videro erroneamente nel film. Ma né il particolare né il totale assegnano un posto distinto all’umano, che è quindi ovunque estraneo, o per meglio dire “piccolo”, riadattato dentro una diversa, immane cornice. Perseguendo il massimo realismo, dai minimi accessori dei costumi (veri e propri abiti d’epoca) agli studiatissimi scorci paesaggistici de-umanizzati, Kubrick lascia cioè veramente minimo spazio all’uomo; e sgomenta un esito simile, come se la macchina da presa potesse registrare il passo solenne delle due storie, quella con la “s” maiuscola e quella di un ambizioso senza grandi qualità che può solo farsene soverchiare, senza mai assurgere a protagonista. Uno sforzo di oggettività che si volge in un panorama che sembra a tratti persino indecifrabile, oscuro, straniante.
Liberato dal peso dell’umano, ridotto ad accidente, il mondo ridiventa di fatto informe, benché non privo di una sua logica, ancora da indagare, come un pianeta alieno. E forse è confusamente sentendo in questo modo che, dopo la morte del figlio, Redmond Barry riconosce la sua definitiva sconfitta e si lascia spingere da parte, vinto e fiaccato nelle sue energie: comprendendo che, per quanto possa fare e tentare, non sa prendere il controllo su nulla. Un tale messaggio anti-moderno (ma non pre-moderno, non c’è spazio per visioni finalistiche o teistiche in Barry Lyndon) è quantomeno un curioso paradosso per un film che rappresenta la più ragguardevole rappresentazione del secolo che diede origine all’Età dei Lumi e a dottrine filosofiche e morali incentrate sulla fiducia nella creatività dell’uomo e nella sua intelligenza.