La bambina e il giovane giornalista Winter/Rudiger Vogler. In un’immagine sfocata e ridotta ad un francobollo della memoria. Non si sa dove sia finito Alice in den stadten (1974). Di certo l’operazione di restauro in 4k operata dalla Wenders Foundation ripropone un’edizione (uscita con l’etichetta Criterion) dove la grana porosa dei pixel si scontra con qualcosa che 40 anni prima era stato pensato per la pellicola. L’ibrido che ne esce fuori è abbastanza inconsueto. La fredda mentalità del codice binario si unisce al desiderio di emulare la lentezza della versione originale, dove gli scuri prevalevano. Nella nuova versione Alice in den stadten rimane una commedia esistenziale virata nei contorni di una scala di grigi che intende restituire tutte le sfumature del tempo in una sequenza di immagini proposte come una sinfonia memorabile su ciò che era ed è rimasto tutt’oggi la lingua tedesca.
Wenders ambienta la storia in due luoghi diametralmente opposti e paratattici. Utilizza l’interfaccia tra l’enorme New York tutta velocità e sete di nuovo (dove la percezione del tempo si riduce del tutto) e Germania di provincia, nelle sue stradine battute ancora da quel senso raggelato di povertà che serpeggiava negli anni ’50 e che le costruzioni moderne non riescono del tutto a far dimenticare. Così il viaggio alla riscoperta di un luogo caro ad Alice ma modificato dal tempo si tramuta nel ritrovamento di un pezzo di Germania dove il passato incombe e la tecnologia del restauro riporta in tutta la sua antica nitidezza. Non per niente è stato inventato il Blu Ray. Per avere la certezza del fatto che film come questi, vecchi di 40 anni, potessero tornare ad avere una sorta di seconda vita. Sono le meraviglie del digitale. La prova tangibile che una testimonianza del passato possa far rivivere qualcosa che sembrava dimenticato per sempre ed invece ricompare in tutta la sua smagliante eternità filologica.
Se è vero che la definizione in 4k fa davvero fatica a restituire un’immagine perlomeno decente del concerto rock di Chuck Berry a cui Winter/Rudiger Vogler assiste, adesso le strade i volti gli occhi e le ellissi tornano sovrane ad affacciarsi in una visione che catarticamente fa ritrovare un minimo di lentezza perduta. Wenders si accomiata al suo cinema con la devozione che si deve ad una delle sue creazioni immaginative più folgoranti di sempre. Il tema del viaggio fatto per caso tornerà nei suoi film successivi (l’ermetico e geniale Falsche bewegung del 1975 e il fondativo Im Lauf Der Zeit del 1976), che andranno a comporre quella che verrà definita come la trilogia On The Road. La verità sta nel senso che si è dati alla Storia dentro le storie che si è scelto di raccontare. Falsi raccordi che intimano uno sguardo non attuale su una realtà del tutto trasfigurata dalle consuetudini aurorali di un cinema come quello del Wenders anni ’70-’80, che detiene il primato di una disputa eterna tra l’uomo e il suo destino. Si tratta di puro cinema futurista per chi possiede uno sguardo che intende indagare ciò che non è più o che non è ancora emerso. A questo servono i restauri.