L‘impostazione del film a bozzetti satirici potrebbe sembrare uno strumento narrativo originale, innovativo, il tentativo di aprire la prospettiva della visione verso l’arazzo futurista. E’ proprio in questo solco che si muove la commedia stralunata dello svedese Roy Andersson, You, the Living (2007), l’unico film dell’eccentrico regista uscito finora anche in Italia. Ma per quale motivo il suo cinema non viene mai toccato dalla distribuzione italiana? Il motivo potrebbe essere molto semplice: perché Andersson è un cineasta deprimente. Ma la questione è molto più complessa e solleva molti più dubbi di quanto si potrebbe immaginare.
In You, the Living Andersson alterna scene grottesche ad altre stralunate, dove la fotografia (di Gustav Danielsson) funge da vettore sinestetico verso metamorfosi visive apparentemente invisibili e inconsuete. Il regista svedese racconta un’umanità diseredata da un senso di vivere che non si discosta quasi mai da una malinconia ombrosa e struggente. I siparietti tragicomici che si alternano con la leggerezza di un diapason, che smonta e rimonta sempre la stessa sinfonia stridula e acida, si conformano verso l’invisibile agonia di una triste serenata alla vita che scorre. Andersson tinge le pareti delle stanze di colori verdastri, giallognoli negli interni e negli esterni, dando al cielo un tono cupo da apocalisse diafana, che sembra voler piovere elettroliti e magneti visivi, che trascinino con sé ogni angolo di sporcizia, forse per lavare i peccati degli strani personaggi, muovendosi in un collage di eventi uno più irriverente dell’altro.
La “penna” di Roy Andersson è acuminata. Il suo cinema è semplice, la catarsi è come un anello a doppio manico che sigilla due attimi: uno dove aleggia la veglia e nell’altro il crepuscolo, dove le idiozie e le strane forme umane che si distinguono le une dalle altre si livellano come in uno strano limbo, mantenendo sempre un equilibrio formale che spiazza di volta in volta lo spettatore, che non sa mai se si deve commuovere o abbandonarsi alla risata. Andersson non gli concede mai il beneficio del dubbio, sa che i suoi personaggi sono come fiamme stridule immerse in un concerto di fuochi alti atti a sopprimere ogni angoscia.
L’umanità dello stralunato commediante Andersson si forma dunque da una nuvola argentea di silenzio che si imbatte in situazioni cariche di odio e amore, lasciando ogni volta che la fioca luce della speranza venga riflessa su anime in pena, alla ricerca perenne di un senso da dare alla vita. Il cinema dello svedese può lasciare perplessi, ma è solo uno dei tanti modi per evidenziare il “punto cieco” all’interno dell’immagine: il luogo cioè dove l’equilibrio della scena viene rotto e l’arazzo futurista prende corpo, evolvendosi nella modo più imprevedibile e anarchico. Questi sono alcuni dei motivi per cui il cinema di Roy Andersson è così invisibile in Italia: una ridotta distribuzione d’essai per You, the Living e l’oblio invece per la sua precedente, altrettanto folle e personalissima regia, Songs from the Second Floor (2000), altro arazzo futurista dove si mette in scena le piccole vite di una borghesia da sempre in cerca di se stessa.