Quando si ha un sistema narrativo perfettamente oliato, i cui codici espressivi si conoscono fin dall’inizio e si sa che non si ha possibilità di essere smentiti in una tesi finale e, che la successione degli eventi seguirà un modello prestabilito e sentito talmente tante volte da diventare un archetipo che entra a far parte di un immaginario insostituibile, allora si è nel campo della teoria classica del genere. Una volta fatta la debita premessa, la domanda è la seguente: si può rivedere con lo sguardo di chi allora non poteva vedere al di qua dello schermo, un’opera sincretica, formalmente furibonda come Mission Impossible II di John Woo (2000)? All’epoca maltrattato come il peggior cinema americano in circolazione e cocente delusione per i fan del regista cinese, il film oggi rinnova un appuntamento con la materia primaria del cinema.
Ciò che il digitale non poté fare all’epoca veniva definito da una serie di coreografie che oggi mozzano l’aria, il fuoco, la pelle, gli occhi. Lo sguardo s’incanta per un nulla, la mente non vuole credere alla saturazione visiva di un divertimento che nasce dal nulla di motivi narrativi hitchockiani per perdersi nella retorica dell’eroismo più sfacciato. Mission Impossible II è pensato da John Woo in ottica alimentare e autoironica. La messa a fuoco delle distanze tra i personaggi formano un binomio good/evil che esula dallo schermo, emerge nello spazio come un tuono catartico di purezza quasi messianica. Che Tom Cruise sia la più grande star vivente, il corpo indistruttibile, il vettore di ogni sguardo pregresso a qualsiasi estetica applicata al cinema di genere, lo si vede nella fisiognomica sempre inappuntabile dell’attore, nella predisposizione naturale al gioco di squadra, all’emozione totalitaria che riverbera un moto senza tregua.
Cio che l’autore John Woo non può prevedere è il deragliamento dello script. La scrittura come forma ellittica di un caos messo sempre in prospettiva e che con Cruise trova il suo massimo compimento. Forse La percezione spettatoriale del sottoscritto doveva andare incontro a 15 anni di sbornia digitale per tornare ad apprezzare un giocattolo come il film di Woo, che rimane un’opera piacevolmente senza alcuna pretesa, se non quella di trasformare il tempo della visione in un campo di battaglia operistico, dove la liturgia del movimento sincretico abbandona le leggi della fisica per fari puro movimento di corpi emotivi in transito. La fotografia è il quadro della tempesta in atto, pronta a scatenarsi ad ogni scena. Mai come in questo film la forma-cinema si trasferisce dalla mdp all’occhio dello spettatore. La capacità di John Woo di fare un cinema della coreografia istantanea è il mood che genera il sistema del parallasse su cui ruota l’intera vicenda good/evil del secondo capitolo della saga di Ethan Hunt.
Alla fine tutto torna al suo posto e si ha la sensazione posticcia dell’operazione edificante e narcisa. Ma il senso della parabola viene racchiuso forse in un messa a fuoco lenta tra l’eroe e la bella, nel divario tra i dialoghi costruiti dagli sguardi si capisce che ci sarà un altro capitolo, che le follie dell’agente Hunt sono solo una parafrasi dei moti vertiginosi di una storia costruita su un immaginario che rende gli enigmi metafore dense di antiche teorie sul cinema mai applicate prima. Allora si può dire che l’impossibilità della missione è la congiuntura tra il fuoco del cinema di Woo e la gelida pietra del volto impassibile e teutonico di Cruise.