I critici italiani osservano ancora come nel cinema di Christopher Nolan si senta ancora troppo il peso della sceneggiatura, forse preferendo il disastro narrativo di opere come Dark Shadows. Ma Nolan non può essere ingabbiato da queste proposizioni fuori contesto, qua si parla di un qualcosa che va oltre il cinema e l’immagine: si tratta della direzione da dare alla propria filmografia, attuando un discorso di sovrapposizioni e inganni, concependo il tratto kinematico come ecumenismo scenografico. Il Cavaliere Oscuro urla, strepita, fa sentire il peso di piombo di ogni scena, la grana scura della detonazione improvvisa, il senso perduto della catastrofe in atto. Forse siamo già dalle parti di un furore magmatico, un’ordine rilevante l’emblema stesso della fede nei personaggi e nelle forme di rappresentazione più auliche e sconnesse. Nolan tiene tutti i fili della narrazione come un gran burattinaio, non si fida della capacità interpretativa dello spettatore e crea un monstrum opaco e riflettente rigurgiti di un cinema che non si vedeva più da anni: pessimismo affondato nei millenni, oscure presenze della mente che guardano un faccia i demoni di un universo traslato, similitudini mortifere tra raccordi di scene sospese. Nolan dimostra che si può far tuonare la mdp, la si può far implodere, se ne può riscattare l’origine fotografica per farla entrare nell’era della digitalizzazione fragorosa e impellente.
Dopo il seminale Inception, un altro discorso sulla manipolazione intrinseca del visivo, una riconferma dello stile grandangolare, stereoscopico (senza bisogno di 3D) di una filmicità che è narrazione nella narrazione. Se è poco, andatevi a vedere The Avengers, vi divertirete di più. Qua no, qua si fa sul serio.