Cinderella 2015 è il calco quasi esatto della Cinderella 1950 di Clyde Geronimi e Wildred Jackson che ammaliò il Festival di Berlino dell’epoca, vincendo l’Orso d’Oro come miglior film musicale. Per Kenneth Branagh era quasi una questione personale, essendo la tematica di Cinderella molto vicina alla sua poetica cine-teatrale. Il regista di Molto rumore per nulla gioca in casa con questo nuovo adattamento del classico di Perrault. La resa figurativa dell’operazione si basa essenzialmente sulle prove d’attrice di Lily James e Cate Blanchett. Cinderella 2015 è tutto un susseguirsi di batti e ribatti tra le due attrici, un duello che finisce in sostanziale parità, senza alcun sussulto di script.
Il passaggio dal cartone animato al film con attori veri porta la produzione Disney ad ancorarsi, se ce ne fosse ancora bisogno, a modelli di restaurazione della classicità, di cui in prima istanza sfugge la necessità. Il profilmico aiuta lo spettatore ad entrare nel microcosmo privato della ragazza-nobile che, una volta perduta l’autorità paterna protettrice, diventa sguattera della matrigna. Che il pubblico più giovane non abbia mai visto la fiaba originale? E’ un’ipotesi che non sta in piedi. Se i cinema si riempiono per ri-vedere la nuova Cinderella targata Branagh è per vedere che effetto fa la vecchia favola Disney trasportata in una nuova confezione più ricca e magniloquente. Questo procedimento potrebbe servire anche per rendere vecchia la versione del 1950, per avvicinare il pubblico ad una visione che ponga la forma al di sopra del contenuto, ammesso che ce ne sia stato uno nella versione del 1950.
Branagh dal canto suo opera per una regia che non si abbandona mai alla ridondanza, all’inutile sovraccarico di elementi. La sua Cinderella 2015 è l’unico film operistico che poteva avvicinarsi al film datato 1950 senza snaturarne l’essenza portante. Quello di Branagh è un calcio di rigore sparato a porta vuota. Per il regista di Hamlet (1996) è tutto fin troppo facile, l’emozione arriva come un siluro, adducendo un’emozione all’immagine senza che l’immaginario su Cinderella ne venga snaturato o ne aggiunga elementi di postmodernismo. Il conservatorismo del regista inglese vince sul piano estetico e non sfrutta mai l’eccedenza estetica della sperimentazione, che un regista come Sam Raimi si sarebbero potuto permettere.
Alcuni particolari importanti cambiano dalla versione 1950 alla nuova, non li elencherò qua, lascio allo spettatore il piacere di scovarli all’interno della visione o della ri-visione. Quello che ha espresso il matrimonio tra la Disney e Branagh è la successione ai posteri è la forza tellurica di un immaginario che trascende le parti per farsi Impero della Visione, lasciano che il grado zero dell’emozione nasconda sempre il riflesso di una discontinuità tra passato e presente. Se il futuro della Disney si chiama Pixar, Branagh ha usato la sua macchina produttiva come una time machine, dotando l’occhio di una nuova prospettiva per rimanere dentro l’incanto dell’ovvio. Come se la metamorfosi del visivo producesse tanti cloni della stessa immagine di riferimento.