Un’attrice come Cate Blanchett sembra appartenere ad un’altra epoca di Hollywood, un’epoca in cui i copioni erano costruiti attraverso un lento scavo nelle psicologie di personaggi complessi e a tutto tondo, in cui le narrazioni erano limate con lo scalpello di una duttilità stilistica tali, da far sembrare i film dei veri e propri gioielli di manifattura filmica.
L’attrice australiana classe ’69 ha ampiamente dimostrato il suo valore lavorando con cineasti del calibro di Peter Jackson (prima della deriva post King Kong), Wes Anderson, Todd Haynes, Martin Scorsese, David Fincher, Woody Allen, anche se il suo talento si era già rivelato ben prima che l’attrice raggiungesse una fama mondiale, grazie all’interpretazione sopraffina in una piccola commedia in costume come Un marito ideale (1999), di Oliver Parker, a fianco di Julianne Moore e Rupert Everett.
Il suo primo successo risale al 2001 quando l’attrice superò la difficile fase di casting per la trilogia de Il Signore degli Anelli (2001-2003), una fase che il regista australiano non si sarebbe potuto permettere di sbagliare senza correre il rischio di aizzare i fan dei romanzi di Tolkien. Sbagliare il casting avrebbe voluto dire mandare in fumo l’intera operazione e pregiudicarsi già in fase di pre-produzione gli enormi incassi che poi sarebbero piovuti.
Con la scelta di Cate Blanchett per il ruolo dell’Elfo Galadriel, Jackson vince una delle sue più grandi scommesse e la performance dell’attrice australiana è a dir poco vibrante.
Se si dovesse fare un discorso puramente numerico, il ruolo della Blanchett in La compagnia dell’Anello è molto piccolo, al limite del cammeo, visto che in una totalità di 178 minuti Galadriel compare per meno di mezz’ora, ma il risultato finale è forse la miglior caratterizzazione ottenuta da Jackson, e insieme al Gandalf di Ian McKellen, quello di Galadriel è una delle intepretazioni che rimane più impresse nella mente, sia dello spettatore che in quella del fan accanito del romanzo.
Dopo la trilogia di Jackson su Tolkien a Cate Blanchett capita la fortuna di dover sostituire Gwyneth Paltrow nella commedia di Wes Anderson La avventure acquatiche di Steve Zissou (2004), dove interpreta una giornalista incinta, incaricata di intervistare l’oceanografo Zissou (Bill Murray), per una cover della sua rivista. L’attrice australiana si impone nuovamente con una nonchalance e un’ironia acida che parevano essere fuori dal suo repertorio: la maestria di Anderson nel dirigere gli attori è risaputa e l’installazione della figura diafana della Blanchett nel contesto stralunato, al limite del fantasy, di Anderson è una prova di maquillage stilistico che sorprende. I duetti della Blanchett con Murray sono irresistibili, ma nonostante questo (o forse proprio per la sua natura eccessivamente eccentrica) il film risulterà il meno capito della filmografia dell’eccentrico autore de I Tenenbaum (2001), ma anche il più geniale.
Nello stesso anno la Blanchett ottiene la consacrazione dall’Academy vincendo l’Oscar come miglior attrice non protagonista, nel film biografico di Martin Scorsese The Aviator (204), dove l’attrice è chiamata ad impersonare il ruolo di Katharine Hepburn.
L’operazione si può leggere soprattutto come un’omaggio del grande cineasta americano alla Hollywood di un tempo, dove Leonardo DiCaprio interpreta Howard Hughes e Kate Beckinsale il ruolo di Ava Gardner. The Aviator, perfetta ricostruzione d’epoca, ottiene 11 Nomination all’Oscar, vincendone 5, la maggior parte premi tecnici, e assume un valore di rivincita dopo le 10 Nomination senza premi ottenute precedentemente da Scorsese per Gangs of New York (2002).
Successivamente la filmografia di Cate Blanchett continua ad arricchirsi con altre prove di eccellente caratura estetica: l’attrice australiana partecipa a Babel (2006) del regista messicano Alejandro Gonzalez Inarritu, opera sulla globalizzazione dove la Blanchett interpreta il ruolo di una moglie che subisce un attentato mentre è in vacanza con il marito (Brad Pitt), una storia che si intreccerà ad altre due ambientare in Tunisia, Messico e Giappone, andando a costruire un mosaico dove il regista messicano riuscirà nel difficile intento di dare un senso ad eventi tra loro diversissimi, dove nel mondo globalizzato di oggi anche uno sparo in un punto preciso del mondo può influenzare cambiamenti a livello geopolitico.
Dopo due incursioni nel cinema d’autore borghese (Diario di uno scandalo di Richard Eyre e Intrigo a Berlino di Steven Soderbergh, entambi nel 2006), il ruolo più difficile nella carriera della Blanchett arriva nel 2007 con la biografia su Bob Dylan diretta da Todd Haynes. L’operazione di Haynes è assolutamente inquadrata in una mentalità queer e già sperimentata da Todd Solondz in Palindromi (2004): far interpretare da 6 attori diversi il personaggio di Bob Dylan, inseriti in 6 contesti storico/temporali diversi.
Quella interpretata da Cate Blanchett è la fase più controversa del percorso artistico dylaniano: la svolta rock, che all’epoca venne capita da pochissimi. La performance della Blanchett è giudicata all’unanimità dalla critica europea come una delle migliori dell’anno e l’attrice vince la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia, ma l’Academy rimane fredda davanti all’operazione, concedendo solo una Nomination all’Oscar come miglior attrice non protagonista.
Dopo aver incantato tutti nella performance probabilmente più importante della sua carriera, Cate Blanchett viene chiamata da David Fincher per Il curioso caso di Benjamin Button (2009), dove l’attrice interpreta il difficile ruolo di Daisy, la donna che passerà il resto della sua vita a fianco di Benjamin Button (Brad Pitt), un essere umano che nasce da anziano e muore da neonato. Il film è tratto da una storia breve di Eric Roth e la sua fattura prettamente hollywoodiana ne denuncia l’imprinting glaciale, dove la complessità della regia viene istallata su una sceneggiatura che è troppo rispettosa dei dettami hollywoodiani.
L’operazione è affascinante ma il film non va oltre la gelida rappresentazione di una eccentrica vita: la mano di Fincher si riconosce a malapena e il suo talento sembra quasi castrato.
Il film ottiene ben 13 Nomination all’Oscar vincendone 3, tutte tecniche, inoltre la durata spropositata 166 minuti per una storia così esile non sembra essere totalmente giustificata a livello narrativo.
Nel 2010 Cate Blanchett interpreta un altro ruolo di rilievo nel kolossal in costume di Ridley Scott Robin Hood, quello di Lady Marion: la super produzione scottiana ottiene pochi riconoscimenti (anche al box office), ma la performance della Blanchett è assai apprezzata.
E’ però nell’ultima fase che il talento della Blanchett ottiene la quadratura del cerchio con l’interpretazione, questa davvero colossale, di Jasmine nello straordinario film di Woody Allen, Blue Jasmine (2013): un a commedia sofferta, sulla crisi di una donna stranissima, nevrotica, insopportabile, viziata, ingenua e furba allo stesso tempo. Un personaggio femminile che Allen non avrebbe mai potuto trovare negli nani ’80 e forse neanche nei ’90, perché inquadrato nello stato di crisi odierno, in un mondo estremamente complesso, globalizzato, iperconnesso che pare folle, al limite dell’incomprensibile.
Il personaggio di Jasmine rimane il punto più altro ottenuto dalla Blanchett e rilancia in modo del tutto inaspettato la carriera del quasi ottantenne Allen, da cui mai ci si sarebbe aspettati un capolavoro simile dopo tante commedie dallo sviluppo facilmente prevedibile. Per il ruolo di Jasmine i premi dall’Academy son piovuti a pioggia.
Dopo aver sorpreso con performance spesso inaspettate e oltre modo rischiose per un’attrice che proviene dal patinato universo hollywoodiano, in futuro Cate Blanchett conta di stupire ancora: per il 2014 sono previsti due film con Terrence Malick (Knight of Cups e un’altra opera senza titolo), per il 2015 sarà nel cast del fantasy in costume Cenerentola diretto da Kenneth Branagh, a fianco di Helena Bonham-Carter e Hayley Hatwell, infine l’attrice australiana tornerà a collaborare con Todd Haynes in Carol, a fianco di Rooney Mara e Sarah Paulson.