Fresco di Oscar per la Migliore Canzone, Glory, interpretata da John Legend e Common, il secondo lungometraggio di Ava Marie DuVernay, Selma – La strada verso la libertà, regala alla prima donna afroamericana la nomination come miglior regista.Vittoriosa al Sundance Film Festival del 2012 con l’ opera prima Middle of Nowhere, i film condividono lo stesso protagonista, David Oyelowo. Britannico, classe ’76, viso familiare nella cinematografia tradizionalista americana, già visto in The Butler Un maggiordomo alla Casa Bianca di Lee Daniels, sempre a fianco di Oprah Winfrey e Cuba Gooding Jr.
La magistrale interpretazione di Oyelowo spoglia dall’aurea di santità la figura del reverendo fresco di Nobel per la pace, dipingendolo come un uomo fragile e contraddittorio, amorevole padre di famiglia da un lato, fedifrago pentito dall’altro. Carmen Elojo presta il volto e la fierezza alla moglie, Coretta Scott King. Dipinta come un angelo del focolare, dedita a casa e famiglia, l’attrice si affranca dalla descrizione di donna fragile, e sopporta a testa alta umiliazioni, abusi e minacce, per il bene superiore.
Gran parte del cast è inglese, dal protagonista predestinato a “diventare” Martin Luther King, allo sceneggiatore Paul Webb, alla doppietta di mostri sacri quali Tom Wilkinson (il presidente Johnson) e Tim Roth (il governatore dell’Alabama Wallace). L’ America bianca figlia del Puritanesimo, proprio non riesce a raccontare, da sola, una fetta di memoria così fastidiosamente inadeguata alla sua immagine di esempio di moralità e democrazia. Il nodo della vicenda, la lotta non armata per conquistare dei diritti acquisiti solo su carta, è una ferita sempre dolente nella moderna storia a stelle e strisce.
Prodotto Oprah Winfrey (che interpreta l’ attivista Annie Lee Cooper) e Brad Pitt, voci forti del panorama democratico U.S.A., Selma è un film retorico e convenzionale che funziona come campanello d’allarme, autorappresentazione di un popolo che ha fatto della non violenza il proprio marchio. Magari alcune scene violente enfatizzate dall’uso di ralenti e primi piani sugli attivisti presi a frustate dagli agenti, avrebbero funzionato meglio se non fossero state così platealmente esibite. Ma è innegabile che in anni di terrore come quelli in cui viviamo, è più costruttivo palesare la violenza piuttosto che vagheggiarla, a testimonianza che i fatti del lontano ’65 non sono poi così lontani.