È con le immagini disturbanti, drammatiche, fortemente e significativamente disperate di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) che Abel Ferrara decide di aprire il suo film dedicato a Pier Paolo Pasolini. Dichiarazione di intenti esplicita su un uomo, un poeta, un intellettuale impossibile, nel suo eclettismo, nel suo essere sempre, inevitabilmente controverso, da racchiudere in un’opera unitaria, in una narrazione lineare ed esaustiva, tanto meno nei novanta minuti scarsi di una pellicola che si preannuncia, sin dalle sue fragili fondamenta, una sfida sotto ogni aspetto. É proprio dal biopic, se non dall’inchiesta romanzata dell’ultimo giorno di vita del poeta, che vuole allora, sin da subito, discostarsi il regista newyorkese. Ferrara parte da quelle immagini di sesso e morte, accompagnate dalle parole dell’ultima intervista video lasciata dal regista per la televisione francese (“Scandalizzare è un diritto, essere scandalizzati un piacere”) per entrare nel vivo dell’artista e uomo Pasolini, tanto nel suo mondo interiore quanto in quello che lo circonda e condiziona, cercare un punto di contatto, se vogliamo, da artista ad artista, per creare un’opera fortemente personale, inevitabilmente incompleta, scostante, ma innegabilmente ispirata.
Sono una serie di frammenti, di impressioni dello scrittore bolognese, quelle che Ferrara ci regala, frasi, racconti estrapolati e tragicamente incompiuti battuti a macchina, sensazioni, vita quotidiana e familiare (la madre Susanna interpretata dall’Adriana Asti di Accattone), rabbia, frustrazione, speranza. É la gestazione di una mente in fervente attività, in continua lotta contro la desolazione omologante della contemporaneità quella che Ferrara mette in scena, intervallando a una realtà quasi diaristica, familiare delle ultime ore di vita dell’uomo, pagine, fotogrammi di film che non vedranno mai la luce (dalle reminiscenze dell’incompiuto romanzo Petrolio, alla ricostruzione fantastica del film che Pasolini avrebbe voluto girare di lì a poco, Porno-Teo-Kolossal), sogni destinati a rimanere irrimediabilmente monchi, irrealizzati. Forse, sembra dirci Ferrara, è proprio in questo campo inesistente, ineffabile, che si gioca tutto il senso del suo omaggio, il tentativo effimero di avvicinarsi, prima che ai fatti, all’essenza stessa dell’uomo e quindi, insieme, alla sua arte capace di creare, con la sua vita, un unicum realmente inscindibile. Nella recitazione smaniosa, inquieta e sofferente di Willem Dafoe il corpo di Pasolini diviene allora il sembiante, la forma stessa di questa esistenza tanto fisica, concreta e disperata, quanto intellettuale, artistica, metafisica.
Pasolini non è una parabola di salvezza o di redenzione, non è l’ennesimo, scandaloso riflesso cristologico ferrariano (benché potrebbe, meglio di altri, prestarvisi). Non c’è Paradiso, come si avvede il buffo Epifanio di Ninetto Davoli, ipotetico protagonista di un’opera forzatamente mancata, costretto a inseguire una luce che non raggiungerà mai. C’è però l’Inferno, quello in cui l’intellettuale, l’uomo, l’artista si immerge, si insozza per riportarne a galla i mostri, o per perdersi, quell’inferno con cui ci scandalizza, schiaffeggiandoci, ci scuote, con cui ci fa sentire, infine, per una morte tremenda, tanto ingiusta quanto drammaticamente coerente, tutti un po’ colpevoli. Quell’Inferno, forse, è proprio il nostro, qui, oggi, quello che Pier Paolo aveva già così drammaticamente profetizzato nei suoi scritti corsari, tracciato nelle sue interviste disperate e lasciate a metà (“siamo tutti in pericolo” dice, a mo’ di commiato, al giornalista Furio Colombo), scorto nel suo ultimo giorno di vita, negli occhi dei suoi carnefici, sulla spiaggia di Ostia.
Pasolini, operazione suggestiva di un’imperfezione costante, struggente, impossibile tentativo di ingabbiare una personalità tanto complessa e sfaccettata, può sollevare dubbi, in particolar modo sulla sua reale necessità. Sorprendendoci, spiazzandoci, commuovendoci ci rammenta, a torto o a ragione, con quei suoi emblematici spezzoni incompiuti, onirici, riportati (parzialmente e fittiziamente) alla luce, quella frase del Pasolini pittore che chiudeva così magnificamente Il Decameron (1971):Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?