Non erano certo pochi quelli ad attendere al varco Johnny Depp alla vigilia del suo ultimo film da protagonista, Black Mass L’ultimo gangster. Dopo aver collezionato una ragguardevole (e spesso meritata) serie di flop, da The Lone Ranger a Mortdecai, passando per Transcendence, la star dei Pirati dei Caraibi, persuaso di tornare così a riabilitarsi come grande interprete, prende parte a un gangster movie (il quarto della sua carriera) cupo e avvolgente, nell’ennesimo saggio sull’ambigua fascinazione del male. Sulla reale necessità, oggi, di un altro film di gangster, con tutte le suggestioni e gli stereotipi del caso, ci sarebbe, forse, più di un’obiezione da avanzare. Certo, non doveva essere della stessa opinione Scott Cooper (Crazy Heart) che con Black Mass – L’ultimo gangster confeziona, seguendo alla lettera un copione ben rodato attraverso le logiche di genere, un romanzo criminale di ordinaria violenza, storia (vera) di un individuo famigeratamente borderline alle prese con un’inevitabile e proverbiale parabola di ascesa e caduta.
La vicenda è quella di James “Whitey” Bulger, spietato boss criminale che, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, complice il benestare della FBI che se ne servì come informatore (e la non trascurabile influenza di un fratello senatore degli Stati Uniti), fece impunemente di Boston il suo impero di estorsioni, droga e omicidi. Con l’ormai consueta dose di trucco e trasformismo Depp costruisce sullo schermo l’immagine glaciale di un essere spietato che, però, di umano pare non conservare quasi nulla, rendendo un nemico pubblico brutale e a tratti psicotico pericolosamente vicino (ancora una volta) ai confini di un’inquietante macchietta bidimensionale.
Ma a voler essere onesti, a voler inquadrare la pellicola come semplice prodotto di genere, non c’è niente che propriamente non funzioni in Black Mass. Al di là dell’eccessivo mimetismo del suo interprete principale, oltre qualche ingenuità o semplificazione di sceneggiatura, quello che emerge, dai comprimari di alto livello (un cast di vere star da Benedict Cumberbatch a Joel Edgerton passando per Kevin Bacon e Dakota Johnson) all’affresco storico e sociale di una città piena di ombre, è un prodotto dignitoso e pienamente godibile che, nella sua schematica aderenza alle regole, non tenta di aggiungere nulla a un immaginario ormai giunto alla piena saturazione.
Con la lezione, sempre presente, degli inarrivabili Quei bravi ragazzi e Gangster Story, Cooper dà vita a un’epopea criminale di facile presa che pecca, casomai, di troppe pretese, troppo ancorata, come in effetti è, a schemi impossibili da infrangere, innovare, sovvertire. Resta la resa, fotografata con occhio cupo e rigoroso, di una città corrotta e alla deriva, di una società – dai fetidi bassifondi ai luccicanti uffici governativi – dipinta in tutta la sua spietata miseria umana. Un affresco ben congegnato ma innegabilmente imperfetto che attraverso l’arco romanzato di un ventennio traccia una parabola di vita al limite, fredda e asettica come quel protagonista irreale, fatto della stessa sostanza di un prodotto di genere sempre uguale a sé stesso, incapace di reinventarsi e di emozionare veramente.