Ha l’innegabile apparenza della svolta poetica ed espressiva un cinema come quello di Alejandro Gonzales Iñarritu quando, lasciatosi alle spalle intrecci funambolici e storie claustrofobiche, decide di confrontarsi con la vastità gelida, ostile ed essenziale della Natura più ancestrale. Dopo i perfetti giochi a incastro narrativi di Amores Perros e Babel, al di là delle quinte teatrali e della claustrofobia metalinguistica ed esistenziale di Birdman, è proprio alla dimensione fondativa del mito, alla forza elementare della wilderness dei grandi spazi che il cineasta messicano volge il suo sguardo, dando vita con Revenant – Redivivo a un western scarno e vibrante dove una lotta primordiale per la sopravvivenza diviene emblema del più terribile scontro tra uomo e Natura.
Eppure, in questa rivisitazione della reale e brutale odissea di Hugh Glass – cacciatore del Nord Dakota che, nel 1823, creduto morto in seguito all’attacco di un orso e abbandonato dai compagni, intraprese un viaggio quasi oltre i limiti dell’umano per tornare alla civiltà – è sin da subito lampante, dal primo sguardo estatico, dal primo, lungo e virtuosistico piano sequenza tra i boschi, come il cinema di Iñarritu sia ancora tutto lì, inscalfito, debordante ed eccessivo, tanto innegabilmente potente, quanto irrimediabilmente autoreferenziale. Perché se è vero che Iñarritu, attraverso la vicenda del Glass di un Leonardo DiCaprio mai così fisico e martoriato, sofferente e assetato di sangue, trova l’immediatezza e l’essenzialità del racconto, riducendo all’osso e scarnificando intreccio e struttura narrativa fino a esibire la carcassa del più lineare dei revenge movie, è anche vero che il suo stile ne esce esasperato, caricato fino all’inverosimile in un esercizio formale fine a sé stesso così compiaciuto della propria confezione estrema e suggestiva da non aver bisogno di nient’altro.
Servendosi della magnifica fotografia di Emmanuel Lubezki e di un livello di consapevolezza tecnica ed espressiva altissimo, Revenant è il trionfo definitivo di una visione che basta a sé stessa, completamente perso nella sua forma, in un virtuosismo narcisistico e sensazionalistico che non ammette alcuna epica, che rifugge persino l’empatia a favore del dominio assoluto di un’immagine folgorante e perfetta. Un’odissea senza più magia, un calvario fisico e iperrealista del dolore che suggerisce il metafisico senza mai toccarlo veramente, senza mai avvicinarsi alla vera essenza di quelle visioni che ne sospendono, per un attimo, il progredire lento ma inesorabile, lontano dalla lezione di quei maestri (su tutti, ovviamente, Herzog e Malick) che vorrebbe eguagliare. Ecco allora che, paradossalmente, è proprio l’anima a mancare in un’epopea tanto sconvolgente e immersiva, crudele e spettacolare, dove le sfumature si perdono dentro a una dicotomia elementare e imperante, mentre bene e male, natura e cultura, sopravvivenza e avidità si scontrano senza sosta, soffocando qualsiasi reale riflessione sull’uomo, sulla Natura e su quel Dio indifferente e spietato che solo nei grandi spazi fa sentire la propria voce.