Cosa si può fare di nuovo a Hollywood dopo Raiders of the Lost Ark (I Predatori dell’Arca Perduta, 1981) e The Jaws (Lo Squalo, 1975)? Verbinski e Jackson hanno provato a dare una risposta con La maledizione della Prima Luna (2003), The Lone Ranger (2013) e King Kong /2005).
Spielberg aveva montato le basi di un’estetica che sarebbe diventata l’inossidabile legge a Hollywood, ispirando a dando idee a centinaia di cloni che non hanno mai raggiunto la grandezza dell’originale.
Ai tempi del digitale il flussi dei generi ha subito una netta ridefinizione: dalla dialettica comica demenziale-grottesco, dall’horror che è sempre più splatter realistico e meno gotico e teorico, alle decostruzioni del noir (Coen, Lynch), il thriller a volte più classico (I Padroni della Notte) a volte geniali ricostruzioni storiche che ridiano il mood di un tempo (Zodiac), fino, appunto, al western.
Nel campo del western le differenze si fanno sottili e riconducibili a più strutture (Michael Mann, anche i Coen, persino ne Il Petroliere e in Le tre sepolture si vedono ricollocazioni di strutture narrative non convenzionali all’interno di paesaggi del tutto riconducibili al genere western).
Verbinski e Jackson in questo contesto hanno utilizzato in modo eccessivo e organico il digitale, per dare forma ad un universo visivo mai esistito.
Ma qual’è la struttura narrativa che arriva di più al cuore dei ruoli e dello spettatore? Forse a questo punto si può quasi dire che il tanto bistrattato Verbinski abbia fatto meglio del ben più blasonato Jackson.
Perché preferire La Maledizione della Prima Luna a Kino Kong? E perché The Lone Ranger li supera entrambi con una forza e una nonchalance degna dei grandi classici? Forse perché nessuno ha capito l’utilizzo del codice grottesco-demenziale all’interno di un contesto del tutto serio come lo western storico.
Per farla breve, Jackson quando girà King Kong tende a metterci troppo cuore, tende a voler divorare il cinema stesso con la sua passione sempre fuori controllo, finendo per prendersi troppo sul serio. Naomi Watts e Adrien Brody ci credono troppo alla Grande Bestia Kong e La Watts è troppo dentro il marchingegno emozionale per emozionare davvero. La sospensione dell’incredulità fa sempre capolino e rovina l’asse contemplativo della performance. C’è troppa verità negli occhi dell’attrice e il risultato è di una melensaggine che grava sull’intera operazione.
Dall’altro canto con Keira Knightley e Ruth Wilson questo non sembra avvenire. Perché il contesto è alleggerito da ogni riferimento intellettualistico e la performance è libera e mai pesante.
Verbisnki è regista pouramente tecnico e mai autoriale, non fa mai pesare una mdp pensante. La teoria si riassume nella mente dello spettatore dopo la visione. Con Verbinski si può davvero parlare di un tecnicismo avulso da fondamentalismi di sorta. Il regista americano non crede che il cinema possa davvero cambiare lo stato delle cose, ma girando narrazioni pure fa come Ridley Scott, trasforma la materia grezza del cinema in oro, senza mai dichiararlo.
Allora si può capire come The Lone Ranger raggiunga il punto di non ritorno dell’action, dandosi allo spettatore come pura effervescenza della visione, mai mutuata da psicologismi o finta propaganda estetica, com tende a fare l’enorme concept visivo del King Kong jacksoniano, un film pesante sotto tutti gli aspetti, un film bello ma già maturo, un’opera già decrittata dallo spettatore durante la visione, un film in cui Jakson non si ridesta mai dalla ripetizione di se stesso.
Questo non significa che King Kong sia un brutto film, non lo si potrebbe dire nemmeno volendo. Ma la memoria dello spettatore va oltre, dimentica la costruzione aulica e devota alla settima arte.
Con The Lone Ranger non ci si aspettava nulla e si finisce per (ri)scoprire la devastante bellezza della Monument Valley e si scopre che Verbinski è persino capace di fare il verso al John Ford di Liberty Valence, si scopre una grande attrice non ancora rovinata dallo Star System e dalle cover patinate dei magazine, Ruth Wilson, si riscoprono i vecchi valori attoriali in cui si è sempre creduti, Wilkinson, Fichtner, Pepper, Bonham-Carter. Neanche Burton sarebbe riuscito a girare un film così semplice in tempi recenti. Perché Burton un film del genere lo fece tanti anni fa, quando era ancora un semi sconosciuto ragazzino con i capelli arruffati, ai tempi del primo Batman (1989).
Allora La Maledizione della Prima Luna e The Lone Ranger segnano il passo sul pachidermico cinema di Jackson, facendo vincere un’estetica corsara improntata non sulla massificazione si un’ideologia tiranna (King Kong) che vuole un cinema perennemente imperioso e solenne, ma sulla determinazione di un’essenzialità di tocco che vede l’attore prendersi come sagoma immersa in un universo visivo mutevole nello spazio.