Titoli di testa da far perdere la testa: è vero, sono gli anni ’60, e lo striptease di Barbarella (Jane Fonda) è seducentemente innocuo, di colorata innocenza kitsch. Lo spettacolo in prologo al film di Roger Vadim, però, funziona: quel corpo nudo – meglio, che si denuda –, una Leda delle galassie che volteggia in assenza di gravità come la piuma di un cigno, interagendo con le fervorose letterine dei titoli, compone una sequenza iniziale di fantasioso erotismo soft. Molto soft, specie per il condimento non troppo piccante di un’ironia che conferisce al tema fantascientifico un’intonazione parodistica: il “Presidente della terra e premier rotante del sistema solare” (Claude Dauphine) pare piuttosto emozionato, nonostante l’apparente aplomb, nello stabilire il contatto video con l’eroina per assegnarle la missione. Niente disturbo, non si rivesta – e intanto, se una freccia potesse seguire la traiettoria dello sguardo del Presidente, indirizzato sbadatamente alle grazie di Barbarella, si capirebbe che, davvero, il leader è uno che va dritto al “punto”.
Barbarella di Roger Vadim: io Strangelove, tu Jane
In un futuro imprecisato, Barbarella viene incaricata dal Presidente della Terra di rintracciare lo scienziato Durand Durand.
Diretto da: Roger Vadim
Genere: avventura
Durata: 98'
Con: Jane Fonda, John Phillip Law
Paese: FRA
Anno: 1968
Il punto, fuor dai doppi sen(s)i, è questo: in un futuro remotissimo (40.000 d.C.) la società è molto evoluta, senza eserciti e senza pregiudizi di sesso; ma non abbastanza, se ha partorito un malefico scienziato, Duran Duran (Milo O’Shea), inventore di un temibile laser. La missione di Barbarella è di ritrovarlo laddove pare sia scomparso, nella selvaggia regione di Tau Ceti, unica area dell’universo in cui non sia giunta la missione civilizzatrice della Loving Union – nome adeguatamente sessantottino –, che ha invece pacificato tutti gli altri mondi. Le speziate peripezie spaziali di Barbarella, però, fanno piuttosto pensare che la sua missione sia quella di recuperare al mondo civile una sessualità che si è ridotta a singolari – e solo apparentemente “soddisfacenti” – amplessi psichici, mediati da una pillola e limitati al contatto fisico delle mani.
Guerra e pace dei sensi, insomma, in questa sorta di strampalato Dr. Strangelove lisergico, tutto flower power nelle scenografie e strip nei contenuti: strip nel senso di “striscia dei fumetti”, considerando che il film è tratto dall’omonimo fumetto del disegnatore francese Jean-Claude Foreste sembra risentirne non poco nella struttura. La miriade di episodi tenuti insieme dalla sottile linea rossa dell’erotismo si popola di sagome di carta, come l’angelo cieco John Philip Law, per parlare del quale dovremmo approfondire l’ostico argomento “sesso degli angeli”; o la Regina nera Anita Pallenberg, una ninfomane al potere. Il tutto in un futuristico mondo primitivo in cui il signore della guerra Duran Duran è così belligerante da cercare di uccidere Barbarella con una macchina masturbatoria sado-masochista che uccide per il piacere. Il grande masturbatore, avrebbe detto Salvador Dalì.
Questo aspetto da b-comic è un limite e, ad un tempo, una ragione di unicità: gli spazi di compensato, angusti quanto una vignetta, fanno da pendant con gli abbondanti tendaggi a metà tra recita scolastica ed installazione artistica, non meno che col resto della chincaglieria scenica. Il volo d’angelo appeso alle funi, poi, è trapezismo cinematografico consapevole: Roger Vadim sembra tenere conto della prevedibile precoce obsolescenza di quell’estetica pop, tanto rutilante quanto trascorrente, sul punto di scolorire al volgere del decennio. A questo sembra alludere il dipinto neoimpressionista di GeorgesSeurat che campeggia sulle pareti della cabina di pilotaggio di Barbarella, Una domenica pomeriggio alla Grand-Jatte: una rappresentazione – all’epoca: 1884-86 – degli svaghi della borghesia parigina à la page, con le dame ingabbiate da corpetti costringenti e gonne ad armatura che nascondevano il corpo. Come le statuette art-deco, roba passata di moda: tranne che per il permanere – singolare, per una società iper-evoluta – di un riserbo sulla sessualità e sul libero utilizzo della propria “mobilia corporale”.
Un arrugginimento a cui si allude con gli inceppamenti a ruota della strumentazione tecnologica di Dildano, uno strambo David Hemmings, guru dei ribelli circondato da ogni sorta di attrezzo mirabolantemente non funzionante: come la chiave invisibile, così ben fatta che si è persa. Non a caso, mentre Barbarella ha già riassaporato il piacere della propria fisicità grazie ad un amplesso con Mark (Ugo Tognazzi, educato troglodita), Dildano chiede alla donna di fare conoscenza poco biblica col contatto delle mani.
Nella smaccata appartenenza alla cultura sessantottina peace and love, l’arma più micidiale del film diventa il corpo stesso di Jane Fonda, per la quale vien da pensare non tanto a Seurat, quando ad un pittore francese della generazione precedente: Gustave Courbet. Per la precisione, a quell’ingrandimento della vulva che il pittore realista dipinse in un quadro noto come L’origine del mondo. La pelle, le forme di Jane FondaBarbarella sono il punto zero della (ri)fondazione della galassia, avanzata quanto a tecnologie, ma arretrata nella cultura elementare del sesso; così come sono l’epicentro dei brividi di paura, dei tremolii di piacere e delle risate a denti stretti di questo spassoso incubo da trip acido che fonde erotismo, horror e commedia slapstick, in un amplesso visivo psichedelico.