La ricerca definitiva dell’umano e del post umano è al centro degli ultimi film di Paul Thomas Anderson e Soderbergh: il dittico sul Che e Il Petroliere con Daniel Day-Lewis mattatore incontrastato. Mentre i due film di Soderbergh sono chiaramente un’operazione politica, un monolite antiretorico (in quanto progetto incentrato sulla messa in scena dell’Imprendibile e dell’Imprevedibile), un film dalla purezza macchiata da un formalismo non immediatamente identificabile se non come una traccia autoriale che stenta ad emerge nel respiro epico di una vera requisitoria morale.
Il Petroliere di Paul Thomas Anderson è completamente immerso nella metaofra e nel mito. Un capolavoro allucitato e solenne, qualcosa che non si vedeva forse dai tempi di Strade Perdute, eXistenZ (altro capolavoro supremo di cui parlerò più avanti), o Eyes Wide Shut. Un film indicibile e sofferto. Anderson inaugura la forma del cinema come denudamento del nervo portante su cui si fonda la teoria sulla prossimità della morte nella civiltà americana (e quindi occidentale) fondata sul valore denaro e della sopraffazione, in cui anche la religione e il potere mistificatorio di questa ha un potere enorme sulla raffigurazione sociale di una disfatta biblica, cosa che Anderson rappresenta in maniera lampante.
Il difetto principale del film di Soderbergh (un film così libero, così ramingo e reminescente, un film “di” luce, sulla luce che illumina e quasi interroga i volti degli attori; questo è anche il motivo per cui alcuni sono stati portati a pensare al cinema di Straub vedendo il dittico sul Che) è la componente formalista del progetto, la sua volontà di essere qualcosa “oltre” il visibile, la sua volontà di cercare di mitizzare comportamenti quotidiani e naturali.
L’elemento della natura nel dittico sul Che è eloquente. Soderbergh vorrebbe far respirare la cinepresa tra gli alberi e le foglie, vorrebbe raccontare la tensione della guerra e dell’ idea di rivoluzione, invece teorizza sul modo di inquadrare la rivoluzione, e fa un film statico e solenne, invulnerabile da qualsiasi attacco di didascalismo e allo stesso tempo troppo rimuginante e oltranzista nella sua visione apodittica di una Storia tutta da raccontare, e che nel film viene raccontata attraverso un soliloquio cinematografico inerte e sovrano.
Cosa fare del Che, della rivoluzione, su un pezzo di Storia del Cile e dell’America? Soderbergh lascia tutto in sospeso e cala il buio sul suo personaggio, sovrapponendo nella scena della morte del Che il punto di vista dello spettatore, della mdp e del Che. Anderson e Soderbergh dimostrano forse l’ineluttabilità della Storia e lo fanno attraverso una circolarità di messa in scena che rimette in discussione tutto il cinema di ieri e ponendo interrogativi sul cinema del domani. Chiedendosi ancora una volta quale strada debba prendere la classicità di fronte alle tendenze sempre più suicide del post moderno e del post cinema che già tutto hanno divorato e digerito.