Il cinema cambia? Cambia la sua fruizione, la sua percezione, il suo approccio al pubblico e alla realtà, la sua trasfigurazione del reale nell’irreale, ma il cinema rimane lo stesso. Allora oggi come si può paragonare il più grande successo al box office di Tim Burton, ovvero Batman nel 1989 con l’ultimo suo successo, Alice in Wonderland nel 2010?
In entrambi i casi la necessità di un certo tipo di script è fondamentale. Nell’89 gli autori erano stati due sconosciuti come Sam Hamm e Warren Skaaren, nel 2010 è Linda Woolverton la sceneggiatrice. In entrambe le occasioni si tratta di un lavoro su un testo di riferimento, nel primo caso i characters di Bob Kane, nel secondo il testo ben più complesso e caotico di Lewis Carroll. Come a dire, a fare un film tratto da un fumetto non ci vuole niente, mentre per fare l’ennesima trasposizione dal testo di Carroll, non che remake del film omonimo della Disney Alice in Wonderland (uno dei grandi capolavori della Disney, che il “padre” della factory di Topolino, Walt Disney, definì “senza cuore”) le cose si complicano e Tim Burton questo lo sa.
Una cosa è chiara, fare un film (il primo) dalla serie di fumetti di Batman non è un’impresa titanica in sé (oggi una nullità come Snyder chissà che schifezza fascista avrebbe tirato fuori), ma Tim Burton lo trasforma in un film titanico, con scenografie dark simil-Blade Runner mai viste, fa un tipo di film che per esempio né Spielberg, né Zemeckis, né Gilliam avrebbero mai fatto. E diventa un classico. Ancora oggi il primo Batman di Tim Burton è un “filmone” incredibile, che fa saltare completamente l’etichetta di film d’autore o di film d’arte. Perché è entrambi.
Per Alice in Wonderland il discorso è molto più complesso. Da chi è partita l’idea di un remake del film della Disney? Il film della Disney è datato 1951 e bisogna dirlo, non è invecchiato per niente. Era un film grottesco che prendeva l’estetica carrolliana e la rivoltava secondo canonici anarchici e qualcuno dice anche “politici”, era un grande film con invenzioni visive di grande complessità. Che cosa dice la produzione? Svecchia il film della Disney e riformula un nuova idea alla luce delle nuove tecnologie. Tim Burton fa questo e anche dell’altro. Complice lo script della Woolverton, appesantito di facili digressioni sul femminismo e sull’indispensabilità della forza del singolo sulla massa, Tim Burton rivolta l’estetica carroliana basata sul non visto, sul fuori campo, sull’immaterialità materiale dell’immaginario ed esplicita il discorso “interno” di Carroll in un discorso “esterno”.
Ancora una volta Tim Burton dipende dal profilmico, perché il suo Alice non dice nulla di nuovo, ma come lo dice! Le scenografie sono incredibili, i characters di Johnny Depp e Helena Bonham-Carter sono lussureggianti e innovativi, l’Alice di Mia Wasikowska è legnosa e spaesata quanto basta (la vera Alice di Carroll e Disney era una ragazzina ricca, viziata e saccente, uno splendido personaggio completamente privo di morale che si atteggiava ad eterna fanciulla) per colpire al cuore. Questo basta a fare di Alice in Wonderland della coppia Tim Burton-Woolverton un nuovo classico? Forse si, anche perché le fesserie femministe della Woolverton non incidono più di tanto sul prodotto finale, Tim Burton riesce a dissimularsi abbastanza bene dallo squallore dello script (compreso l’ultimo folle ballo di Johnny Depp, una delle peggiori pagine del cinema burtoniano, roba che verrebbe voglia di bocciare l’intero film solo per quella insulsa scena).
Quindi, se i fan del primo Tim Burton insorgono davanti a questo meraviglioso Alice in Wonderland, si sbagliano per una questione di “somma delle parti che trascende il tutto”, non certo per il contenuto, che rimane invariato. Non fosse per la sua “moltezza” un po’ annacquata dalla produzione, il cine-universo di Tim Burton invecchia bene.