Johnny Depp sembrava nato per fare l’indiano emarginato. Il mancato consenso di The Lone Ranger rimane un mistero.
Perché pubblico e critica andarono a nozze con La maledizione della Prima Luna (2003), dove si resuscitavano i vecchi bucanieri atti a solcare gli oceani con i loro vascelli, e non hanno accettato il compromesso estetico di una rinascita dello western-pop in una cornice, a differenza della saga piratesca, del tutto realistica, con una basso uso di cgi?
Sondare i gusti del pubblico non è facile, anzi è praticamente impossibile. Un’impresa ardua, quanto inutile a dir la verità.
Stavolta la coppia Bruckheimer-Verbinski non ha azzeccato il jackpot al box office. Un vero peccato, perché stavolta il materiale c’era per inventare un nuovo mito del cinema western.
Non che The Lone Ranger una vita dopo il passaggio in sala non l’abbia, ci sarà tutto il tempo per trosformare in cult questa magnifica, classica avventura d’altri tempi.
Gore Verbinski sembra aver capito il funzionamento del marchingegno-cinema, della macchina da soldi, del fare del turbo-cinema con elementi semplicissimi.
Il ranger buono (Hammer), l’indiano matto che gli fa da spalla suo malgrado (Depp), la bella (WIlson); infine due cattivi: il brutto (Fichtner) e l’arrivista (Wilkinson). Tutto perfetto.
Il mio stupore, la sensazione di meraviglia dopo aver visto lo spettacolo di The Lone Ranger mi sembrava strano, come era possibile che Hollywood avesse risvegliato un genere che non si rivedere più da anni? Ho riportato alla mente gli ultimi western di Hollywood visti: Le tre sepolture (2005) di Tommy Lee Jones, Appaloosa (2008) di Ed Harris, Il Grinta (2010) di Joel e Ethan Coen, Django Unchained (2012) di Quentin Tarantino. Si tratta in ogni caso di tipologie di cinema che tentano di dare uno sguardo inedito sul cinema western. Soprattutto il film di Tommy Lee Jones, che del western conserva solo gli scenari, per altro si tratta di un’operazione molto più vicina al Peckinpah più sporco e dimenticato, o a certo cinema underground di Robert Aldrich.
Diciamolo senza troppi problemi: non è questo il western che ci piace vedere.
Per quanto riguarda il film di Harris siamo a livelli di calligrafismo piuttosto fiacchi e dimenticabili.
Le uniche due operazioni credibili, basate sulla creazione di un universo autonomo e autoriale sono Il Grinta e Django Unchained. Ognuno ha il suo favorito, si tratta, nel primo caso, di una rilettura filosofica di un’atmosfera desueta e arcaica, offrendosi come riflessione catartica sul tempo, nel secondo caso, di un fuoco d’artificio dove Tarantino cerca e trova nella periodicità dell’ambientazione western tutti gli elementi cari al suo cinema, dialoghi dilatati e esplosioni di violenza che funzionano come vettori di senso.
Con The Lone Ranger siamo al livello in cui la sfera armonica del cinema dei Pirati dei Caraibi viene portata ad aprirsi nel gergo sporco e verista della Monument Valley. In un contesto di simile maestosità tutto sa di mito e di leggenda. La filosofia del Liberty Valence fordiano qui trova ampia esemplificazione. Davvero una mossa atipica per un blockbuster fracassone.
Ma The Lone Ranger non intende mai fare intellettualismo, non intende restaurare una cultura western come hanno fatto i Coen e Tarantino. Verbinski se ne frega alla grande di un qualsiasi contenutismo. Gli interessa solo il mito, la decodificazone pura di un genere sempre negato a se stesso.
E’ questo il motivo di un trionfo estetico che non ha raccolto il necessario e dovuto consenso da parte del pubblico e della critica.
Il cast lavora in questo senso, come nella saga dei Pirati non si prende mai sul serio ma, diversamente dai tre film sul pirata Jack Sparrow, conserva un senso di autorevolezza, di verità e di smascheramento latente del genere che sorprende. Ogni character in The Lone Ranger rileva il sintomo di una grazia perduta nei tempi, di cui si sente il riflesso anche a distanza di tempo dalla visione. perché la memoria dello spettatore non mente mai.