Tra tutti i film della stagione in corso, il dittico su Che Guevara è il progetto più sfaccettato, ambizioso, destabilizzante, spiazzante, quasi alieno. Soderbergh ha tentato una strada impervia, ha utilizzato un taglio politico nel primo capitolo Che- L’argentino, e ha invece impostato il secondo capitolo Che – Guerriglia secondo un inedito stile “malickiano”. I risultati sono quanto meno inaspettati.
Il cinema di Soderbergh (regista abituato a ben altre atmosfere, molto più giocose e di maniera, da Ocean’s eleven a Erin Brockovich, per non parlare di spazzatura autoreferenziale e falsa come Sex, lies and videotapes, che “rubò” la Palma d’oro a Cannes nel ’90, oppure allo pseudo noir Bubble, amorfa ricognizione sulla noia della provincia americana che generi mostri, ma senza attribuirla ad una reale direzione morale, (come hanno invece fatto ottimamente i Coen nel capolavoro Non è un paese per vecchi), diventa inaspettatamente meditativo, oscuro, lampante e illuminante.
Il dittico su Che Guevara è tutto un film basato sulla luce, un film “di” luce e di dubbi, di miraggi e di oscura paralisi dello spazio.
Il cinema come movimento di indagine sul “cosa” e sul “come” inquadrare, come proposta di una requisitoria sul dubbio inteso come alone di mistero e di distanza dall’oggetto inquadrato, che si fa da subito soggetto di un cinema sconnesso alle necessità dello spazio scenico. Soderbergh pone come figura interpretativa della Storia della Rivoluzione un uomo che cerca in sè il mistero della scoperta come punto fermo del viaggio che lo condurrà alla morte. Soderbergh offre un punto di vista “altro” rispetto al Paul Thomas Anderson di There Will Be Blood.
Lo sguardo andersoniano era quello di colui che teneva i fili della recita, orchestrando la narrazione con una tensione fluida e nera che aveva un che di miracoloso. Ma il punto sui personaggi rimane invariato: la distanza che si riserba a grandi uomini che stanno fuggendo dal proprio destino. Il Che di Soderbergh morirà, succube della propria idea utopistica di rivoluzione, il Daniel Playnview di Anderson ucciderà per la bramosia della propria sete di vendetta contro tutto e tutti. Soderbergh e Anderson pongono come punto fermo del loro cinema l’ineluttabilità della Storia e la possibilità, silenziosa e furente, del cinema di comprendere avvenimenti enormi sotto la lente della soggettiva (quella del Che) o del piano fisso, inquisitore e definitivo. Il cinema come dubbio e mistero è la teoria sul mondo che si rovescia e diventa impulso irrefrenabile verso una luce che è quiete e penombra. Per questo Soderbergh e Anderson firmano opere che rimandano ad altri mondi e universi chiusi da una cornice che ne amplia però la cassa di risonanza, fino a raggiungere vette impensabili.
Soderbergh tende ad annullare la concezione tradizionale di spazio-tempo e promuove un cinema fatto di pause a cui oggi forse si è poco abituati. E’ proprio il fatto che sia un regista come Soderbergh a fare un tipo di cinema così sperimentale che dà da pensare. Soderbergh ha il coraggio di prendere la Storia e rimaneggiarla, non mostra il sangue, i morti, il lato oscuro del Che (Che Guevara è stato un rivoluzionario, ma anche un violento, un assassino, tutte cose che nel film non ci sono). Gli interessa altro. Preferisce filmare gli alberi e le montagne, soffermarsi sulle espressioni enigmatiche di Benicio Del Toro, come a cercare una risposta ai fatti. E a non trovarla. In questa mancanza, in questo mistero si cela l’invidiabile punto d’arrivo del film di Soderbergh, che ha fatto l’unico film possibile su Che Guevara. Ci abituerà ancora a progetti così rigorosi?
Un cinema quasi sfuggente, imprendibile quello del Soderbergh di Che-Part One/Part Two, regista affatto abituato a proporre un cinema così “semplice”, acceso e contundente. Crescerà con il tempo, sarebbe un perfetto film da dibattito.