Si possono fare delle considerazioni in merito al duopolio autoriale Melancholia di Lars Von Trier (2011) e Faust di Aleksandr Sokurov (2011). Si tratta delle ultime due variazioni tematico-estetiche di due registi ostici, che fanno del cinema estremo e puramente fotografico la più profonda variazione d’essere del loro punto di visione.
Se una possibile teoria sul cinema si può abbozzare, si può dire che, nella filmografia di un determinato regista, essendo questo un autore particolarmente ostico, si arriva ad un film che detta il manifesto di un certo modo di fare cinema, scoperchiando in maniera del tutto lampante il punto di vista di quel regista.
Nei due casi sopra citati si può dire che per Von Trier e Sokurov siamo arrivati a quel punto limite per cui, la coltre di dubbi che si erano accumulati durante le visioni dei film precedenti inizia a diradarsi, dando la possibilità di tracciare un bilancio estetico e morale.
Nel nostro caso si può dire che il cinema di Von Trier è si molto bello ma non merita più (se l’ha mai meritato) la qualificazione di cinema necessario, producendo un continuo reiterarsi di situazioni paradossali con la presunzione di chi pensa di aver già capito tutto del cinema, caricando il suo film di simbologie che non riescono a costruire un universo tematico perfettamente coeso tra le varie parti.
Nell’altro caso, quello del Sokurov di Faust, si prende invece coscienza di una visione diacronica, paratattica, fortemente introversa e soavemente disgustosa, traducendo in immagini un mosaico bruegheliano in continua trasformazione, tra visioni epifaniche e elementi di un grottesco forse proveniente da un’altra galassia.
Forse è un film di fantascienza, sicuramente si tratta di un notevolissimo punto d’arrivo per il cineasta russo, una dichiarazione d’intenti che amplia lo spettro visivo dello spettatore, annichilendolo in una visione oppressiva, pesantissima, roboante, dolce come una saetta che risuona nelle ombrose cavità del sottosuolo, in cui il volto ambrale di Margarete immerge il cinema del regista russo nella terza dimensione della visione, con l’uso degli obiettivi deformanti, lo schermo quasi quadratico che ricompone un quadro in netta defenestrazione di un nudo prospettico, che invita alla resurrezione di uno sguardo addormentato nelle pieghe del tempo.
Von Trier e Sokurov hanno dispiegato le loro forze alla ricerca del senso perduto, Von Trier ha trovato un universo visivo suadente ma fermo, in un film che annaspa nel non-luogo della visione, che si concede pause non necessarie di interpellazione con una natura indifferente che rende la vita priva di fascino, ma in cui ormai si evince che lo sguardo vontrieriano non ha più la lucidità per introdurre il su consueto disegno reazionario di ribellione al mondo, di conseguenza, si lascia trasportare da una insensata deriva nichilista.
Dal canto suo Sokurov dipinge la direttiva morale del suo cinema sempre acuto, brillante, necessario per una vocazione interna al quadro alla dialettica più prossima alla rivelazione di un nascosto limbo, quello cui regista russo tenta di dare forma, concedendo alla visione l’energia di un tumulto che muta nel tempo, che si fa arte, che annulla e raddoppia il tempo, che sconfigge la morte e si situa la dove solo l’occhio di Dio può giudicare la nemesi di una forma talmente astratta che l’intero disegno divino si dispiega a forza rigenerante e assoluta.