The New World Il Nuovo Mondo, opera sinfonica a più voci, verrà sepolto e dimenticato? come un film senza più una storia da raccontare, timoroso nell’affermare la propria autorevolezza messianica, in vantaggio su qualsiasi altra estetica, il film di Malick si riprende dal proprio sogno utopico per forza d’urto e svetta con un’ellissi entropica di forza estetica alquanto rivoluzionaria.

Ad esempio prendete l’unica cineasta che ha tentato un approccio simile sul tema dell’impossibilità della forma-contenuto nell’era post moderna, Sofia Coppola, che si è persa nel mare di invenzioni visive, nelle carovane spudoratamente avvolgenti, nel sostrato ellittico di una modernità senza poter più scampare al giudizio interiore della Storia, maiuscola e minuscola. Perché se la Coppola ha reso tangibile il rosa di Maria Antonietta, ha svuotato di senso ogni balaustra, ogni rintocco di fiaba, irrisoria allo scorrere del tempo, nella reggia di Versailles, vero monumento all’inutile ricostruzione di un impossibile Eden eretto alla giovin signora austriaca.

 A Malick bastava una plongèe di cinepresa, una panoramica verso l’infinito del nuovo mondo per assetare di liturgia lo sguardo e ridare purezza ad una forma completamente sconnessa da parole, linguaggi, dialettiche e frastuoni dell’aria. Tutto veniva compreso in un enorme, magnifico quadro compositivo. La Coppola ha voluto esercitarsi con i tableux vivants, a volte uscendo vincitrice, a volte soccombendo all’idea di sterilità figurativa. Peccato, perchè la tensione emotiva genera solo una leggera empatia con il mondo privato della protagonista, a cui Kirsten Dunst fornisce una performance quanto meno ammaliante, compiuta ma enigmatica, perchè derivata da una non reale necessità di accondiscendenza alla costruzione del carattere del personaggio storico.

Kirsten Dunst è frivola, leggera coma una piuma. Ma è davvero questo quello che voleva la Coppola? Forse Maria Antonietta vedeva in sè una predestinazione all’armonia immediatamente figurativa che nessun cineasta potrà mai riconsegnare, dalla Storia e all’immagine del cinema. E’ proprio qua che l’anacronismo della Coppola tocca la luce dell’arte, far riaffiorare l’impossibile agli occhi di una vergine. Allora una costruzione impositiva così incurante di una struttra drammatica tesa e coinvolgente, così esigente di un punto di vista intimo e dinamitardo, in altre parole Punk, può avere una ragion d’essere anche la di fuori dello schermo. Può essere l’unica strada percorribile per non scadere nel già visto e imporsi come ellissi perenne.
 


La Coppola non sfigura di fronte ad una ricostruzione d’epoca, i paragoni con Barry Lyndon sono per lo più di effimera affinità contestuale, non ha lo sguardo camaleontico e umanista di Kubrick che disegnava quadri atteaverso il grandangolo e strutturava la scena con archi di luce e oscurità diffuse. La regista accompagna la propria “eroina” verso un vortice antirappresentativo di predestinazioni e negazioni altisonanti e frivole. Lo si potrebbe definire un cinema “frizzante” e arioso. Il problema del film della Coppola è la sceneggiatura, la mancanza di un filo conduttore tra la ricostruzione d’epoca e il dramma interiore della protagonsta. Lo stile c’è, la profondità è incanalata nelle scenografie, così emerge un dipinto aulico ma spento, opaco, intenso e sgargiante ma esangue. Non che sia un male.


Maria Antonietta non è un film riuscito a metà ma la prova che lo stile della sua autrice è partito verso una direzione altera in cui l’inquietudine si maschera nel gioco e si vendica dell’inerzia allucinante del tempo che scorre. Ecco, il tempo nel cinema della Coppola volge verso l’interno. Nel senso che non esiste. In questo Maria Antonietta assomiglia ad una bolla colorata e spumeggiante. Che può anche essere presa per un monito di grandezza.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).