Her (Lei) di Spike Jonze è il titolo più spiazzante di questa nuova stagione 2013-2014, in un periodo in cui il cinema americano si sta lentamente scrollando di dosso tutta la pesantissima zavorra estetica del (pseudo)cinema in 3D, degli effetti speciali roboanti, dei cinecomix più che inutili, con opere quali The Immigrant, The Wolf of Wall Street, The Counselor, Inside Llewyn Davis, All is Lost etc.
La commedia di Jonze esce sugli schermi in uno specifico spartiacque storico, in questa fase temporale innaturale, in cui lo spettatore/utente è completamente immerso nella placenta digitale e allo stesso tempo si trova nella condizione di mediare tra i due device, dove la mente è presa in una continua emotività effervescente, dissociata tra un modello analogico-cartaceo e uno digitale-computerizzato-automatizato.
Una pseudo commedia come Lei spiazza, sfugge da tutte le parti, è un’opera che irrita, attraversa costantemente un livello di frizione gelida, senza appaga mai la sete di emozioni dello spettatore con un romance fervido, ma adagiandosi nella comprensione della complessità di uno studio analitico, incentrato sulla solitudine dell’utente all’interno della placenta digitale.
Lei appare come un enorme fuori campo (la voce di Samantha appartiene ad un corpo che non esiste), riflettente l’umiliante mancanza di un contatto fisico nell’era dei rapporti virtuali. Jonze in questo senso si ingegna per mostrare qualsiasi nuova possibilità di divertimento o meccanismo di ripresa e di montaggio, si muove tra gli schermi (tutti freddi e distanti), si muove in spazi angusti e lussuosissimi, in cui lo spettatore non vorrebbe mai vivere, perché del tutto asettici e privi di vita.
In Lei Joaquin Phoenix arriva ad innamorarsi della voce di un sistema computerizzato di intelligenza artificiale, il modello più avanzato, il più incline a poter sviluppare una propria coscienza ed emozioni vere.
Ma qual’è il prezzo di questo rapporto, all’interno dell’inviolabilità di un’unione finta e apparentemente inaccessibile (poi si vedrà verso il finale che molti altri utenti hanno una storia d’amore con Samantha e il protagonista ne rimarrà turbato a tal punto da perdere il controllo di sé), dove il trauma per la separazione viene sostituito dall’appagamento di un’extrasensorialità, sconnessa dal resto della società, che trova il suo assurdo culmine nella scena d’amore tra Phoenix e la voce di Scarlett Johansson.
Il prezzo è che la commedia di Jonze rimane ingessata su delle posizioni, dei luoghi, delle prospettive di visione ciclicamente e rigidamente codificati. In Lei tutto lo spazio di cinema digitale viene occupato dai device digitali, perdendo, agli occhi di Phoenix e dello spettatore, qualsiasi connotato di corporalità visiva, rimanendo uno spazio degno dell’angoscia primitiva di una stazione spaziale.
La sensazione di tetra freddezza di Lei di Jonze mi è venuta in modo particolare, recuperando una vecchia commedia di Blake Edwards, Blind Date (Appuntamento al buio, 1987), con Bruce Willis e Kim Basinger. Si tratta di un’opera minore nella filmografia del suo autore, un divertissment perfettamente ideato, che a distanza di 26, come la quasi totalità delle opere degli anni ’80, rischia una pesantissima rivalutazione.
Ecco, l’emozione per una commedia di tale semplicità (la protagonista, interpretata dalla Basinger, non può bere neanche un bicchiere di spumante perché se tocca anche solo una punta leggera di alcol perde completamente il senno), mi ha preso talmente da farmi pensare che un tocco così (già) antico non sarà più possibile ai giorni nostri, così cinici e automatizzati, che la sapiente struttura narrativa, di una delle meno originali delle commedie degli anni ’80, non sarà più possibile averla indietro.
Il fallimento davanti alla meraviglia del surplus digitale ipertecnologico sta anche in questa mancanza di semplicità, dove il volto di Joaquin Phoenix, immerso nella sua demenza digitale extra sensoriale, rende più di mille parole il senso di smarrimento e di autocompiacimento di questi tempi, in cui l’odierno rappresenta il vuoto dell’autorappresentazione, e l’unica via d’uscita sembra essere costituita da un revival del tempo che fu. Ma forse non tutto il male vien per nuocere, forse anche in questo sta l’importanza del film di Jonze, nell’aver avuto il coraggio di cogliere lo spirito del tempo.