Il cinema di Jane Campion tradisce sempre un vizio di forma, come un malcelato senso di fondamentalismo femminista, un conservatorismo estetico che si tende all’estremo verso un netto progressismo riferito al ruolo della donna all’interno della società. Il cinema Jane Campion è questo e altro, nei suoi 7 film, da Sweetie a Bright Star la retorica post femminista riceve come un sussulto aurorale, la Campion pone sempre al centro di ogni suo film il ruolo non della protagonista femminile, bensì la macchina da presa.
E’ il cinema il luogo in cui i suoi personaggi prendono forma e si stagliano nell’immaginario collettivo, inaugurando ogni volta uno straordinario esercizio di altissima rifinitura estetica, togliendo magari i due passi falsi, Holy Smoke Fuoco sacro e In the cut, dove la cineasta neozelandese tenta un diverso approccio alla materia narrativa, sbandando il più delle volte, ma può capitare a tutti i grandi (come non ricordare il disastro di Il Pianeta delle scimmie di Tim Burton?), difatti la Campion, dopo diverso tempo sarebbe tornata a deliziare i suoi fan con un altro compendio di delicatezze come Bright Star, quest ultimo rappresenta senza dubbio il modello di cinema che ci si aspetta sempre da una cineasta del suo calibro, un po’ come se John Carpenter si mettesse a girare un musical, cosa ne capisce il principe delle tenebre delle coreografie e dei balli? Quelli di solito li si chiede a Baz Luhrmann. Così è per la Campion, cineasta da sempre alle prese con infuocati e passionali mélo come An angel at my table, sulla scrittrice Janet Frame, come il trittico romance Lezioni di Piano, Ritratto di Signora e Bright Star, cineasta che possiede un afflato registico-compositivo che ricorda Scorsese, cineasta che sa puntare il cosmo interiore dei suoi personaggi, sa filmare il tempo, nutre le vene dello schermo con qualcosa di impercettibile come la caratura estetica di ogni movimento di macchina.
Tutti i film della Campion hanno un corpo-film che mira alla dissoluzione dei personaggi nel tessuto emotivo-sintattico di una scrittura che fa da vettore con le assonanze e le distanze che intercorrono tra ciò che viene detto e ciò che viene solo alluso. La campion riduce lo schermo ad un microscopio attraverso il quale vedere oltre l’immagine, rende pesante ogni frame, fa sentire lo sguardo come puro acciaio, sia attraverso i primi piani intensissimi di Holly Hunter o Anna Paquin, Nicole Kidman, o quelli di Abbie Cornish.
I film in cui la retorica campioniana diventa matrice illusoria sono Lezioni di Piano, Ritratto di Signora e Bright Star. Un angelo alla mia tavola è una prova di forza narrativa in cui la cineasta compie ardite sperimentazioni atte alla comprensione del carattere particolarissimo della scrittrice presa in esame.
Ma nei tre film sopra citati si può individuare un sussurro proveniente da altre sfere sensoriali. La Campion più che una cineasta assomiglia ad una sacerdotessa del silenzio e la sua spiccata sensibilità porta alla scoperta di meravigliosi paesaggi emotivi. Tutto Lezioni di Piano è una poetica di ritorno sul paesaggio e sul confronto con l’incommensurabile potere della musica in quanto sfida a Dio attraverso un dono che proviene da Dio stesso. In Ritratto di Signora le location sono Roma, Firenze e Londra e lo splendore dei giardini e lo sfarzo degli interni creano quella gabbia dorata da cui la protagonista è decisa ad uscire con tutte le sue forze, in questo film il mélo si fa tetro e racchiuso nei dettagli di una forma sempre più aulica ed austera, è sicuramente il risultato più ambiguo, più ambizioso e anche il meno capito.
Con Bright Star invece si ha un mélo uniforme, completamente sbalzato fuori dallo spazio e dal tempo, per un film che attua uno scarto totale con tutto il cinema contemporaneo, avulso da ogni moda, ben oltre la rappresentazione alla Merchant-Ivory; prendendosi il suo tempo, Jane Campion realizza una ballata triste sulla vita della scrittura nel tempo, un ritratto casto della parola poetica intesa come eros inespresso e interno all’universo delle sensazioni più intime e negate alla sfera della vita concreta. Keats e Fanny si amano con lo sguardo e si allacciano in una partitura amorosa in cui il frame diventa collante di emozioni verticali mai dome. E’ un cinema illustre e mai pago dell’emozione che si porta in grembo, un cinema non adatto a questo tempo, un cinema datato sempre fuori luogo, come se tendesse sempre un impossibile colloquio con l’assoluto.