Nel cinema americano degli anni ’00 si è sviluppato una certo filone, ovvero il racconto della tragedia dell’11/9 e la guerra in Iraq attraverso il cinema. Film come Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, Nella Valle di Elah di Paul Haggis, Redacted di Brian De Palma, The Hurt Locker di Kathryn Bigelow ne costituiscono gli esempi più eclatanti, per un argomento che la Hollywood mainstream e le produzioni indipendenti hanno trattato nei modi più svariati, o prendendo di petto la questione come nei film sopra citati, oppure attraverso la metafora, ad esempio in un film come Cloverfield.

Quello che, in tutta onestà, si può dire, è che quando l’argomento è stato trattato in maniera diretta e, la tragedia è stata raccontata in modo semi documentaristico (ci sono anche film come World Trade Center di Oliver Stone, in questo senso), il risultato è stato esteticamente misero, ovvio, basato su una dialettica terra terra, che non portava da nessuna parte. Perché ripetere, come fa De Palma su Redacted, che la guerra è una cosa sporca e che i media tradizionali hanno dato una versione camuffata dei fatti e che oggi con i digital divice si ha una proliferazione di materiali, di video, di testimonianze filmate nella maniera più disparata possibile? Non sono cose che si sapevano già? Avevamo bisogno del bigino di De Palma per sapere che con una moltitudine di punti di vista diversi abbiamo più difficoltà a riconoscere la verità?

Paul Haggis dal canto suo fa un cinema pseudo eastwoodiano, classico, fa piangere la madre Susan Sarandon perché del figlio partito in guerra torni almeno la salma, per dargli un corpo da piangere; mostra la furia di un grande Tommy Lee-Jones che si abbatte come un bufalo contro le istituzioni, per cercare un brandello dei verità e poi mostra Charlize Theron, con un cerotto al naso per la botta ricevuta da Lee-Jones, che brancola nel buio, tentando umilmente di fare il suo lavoro. Punto. Haggis non riesce ad andare oltre un palese realismo da quattro soldi, rivendicando un’idea di classicità che serva a fornire una denuncia dello stato di corruzione del paese. Ma in quanto a forza plastica di una visione ferocemente contraddittoria del mondo, delle cose, dei traumi: nulla, piattume, solo un solipsistico piagnisteo.

La Bigelow invece si riduce a girare un film senza arte né parte, che racconta semplicemente l’ossessione del protagonista Jeremy Renner per il suo lavoro (disinnescare la mine nel terreno afghano), difatti quando torna a casa, va al supermercato con la moglie, sente un senso di inadeguatezza profondo, in un contesto di pacatezza quotidiana che non gli appartiene. E torna così in guerra. L’adrenalina come droga. In The Hurt Locker non c’è altro, la regia è pulita, ma non basta, bisogna anche avere qualcosa da dire e la storia è talmente povera, i characters sono fermi al loro ruolo, non c’è alcuna progressione drammatica e nessun risvolto. La guerra per la Bigelow è un lavoro sporco ma noioso. Magari, se ci fosse stato il Peckinpah di Il mucchio selvaggio sarebbe riuscito ad inventarsi qualcosa.

 

Infine il più spinoso di tutti. Il documentario più incendiario degli anni ’00, la Palma D’Oro più discussa, più ideologica, con la quale la Francia dice “NO” alla guerra in modo plateale. Il film di Michael Moore, la più pesante requisitoria anti-bush, il travaso di bile contro la sua amministrazione. E’ un film che o lo si prende per quello che è oppure lo si lascia all’istante, perché è pura rabbia, Moore concentra tutti i suoi sforzi di attivista per annientare la figura del Presidente. Ma Fahrenheit 9/11 è cinema? Come lo si deve prendere? Funziona ancora adesso? La sensazione è che tutti i film di Moore in un futuro non lontano, appariranno come forti denunce di questi tempi di oppressione e di viltà diffusa, serviranno come esempi di contro informazione, ma in quanto film, rimarrà un qualcosa di estraneo al mondo del cinema. Se il cinema è Powell, Bresson, Scorsese, Lynch, Polanski, Moore non è un cineasta, ma un giornalista che fa film-inchieste d’assalto.

Discorso completamente diverso per l’operazione-Cloverfield. Molti critici l’hanno rifiutata in toto, sbagliando, perché si tratta di un aggiornamento importante nel solco del cinema post 9/11. Si tratta di un mix di documentario, sci-fi, horror, catastrofico, commedia (la parte iniziale), dramma privato. e funziona alla grande soprattutto grazie allo script del grande Drew Goddard (Quella casa nel bosco) e al cast di attori sconosciuti e tutti perfettamente in parte. Clovefield riesce a combinare un discorso sulla messa in scena del caos in un mondo super controllato dai digital device, istallando la paura nei confronti dell’immagine, la paura della rimozione del ricordo, l’invenzione di un’estetica che mini la concertazione della dialettica, superando la parola di slancio, seguendo un modo di filmare che restituisce all’immagine il ruolo primario di manifestazione del terrore.
In conclusione, si può dire che per creare un cinema autonomo dalle ideologie bisogna oltrepassare la realtà dei fatti e utilizzare l’arma della metafora. E’ l’unico modo per imprimere un solco duraturo nel tempo del cinema, in seno ad un immaginario spettatoriale invaso da troppe informazioni.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).