Fargo, serie della cable tv FX in dieci episodi scritta da Noah Hawley e andata in onda negli Stati Uniti a partire dal 15 aprile, è da considerare allo stesso tempo qualcosa di più e qualcosa di meno di un classico film dei fratelli Coen.
Non solo perché i fratelli, in veste di produttori esecutivi, hanno parafrasato (variandolo), allungato e “allargato” il loro magnifico film del 1996 in qualcosa di strutturalmente differente. Ma anche per effetto delle limitazioni che la serialità televisiva impone al loro inconfondibile universo. La durata standardizzata sotto l’ora (con l’eccezione dell’episodio iniziale), la divisione in episodi con la conseguente necessità di picchi emotivi specialmente in prossimità della conclusione di ogni puntata (memorabile per esempio il finale del terzo episodio, con il sangue che esce dalla doccia), l’esigenza di concentrare l’attenzione su un numero relativamente più ampio di personaggi e di situazioni, hanno alla fine compiuto il ribaltamento di prospettiva: non più un cinema che tende a ripetere sempre più stancamente la filosofia del duo, ma una televisione che, facendo proprie le peculiarità registiche e la Weltanschauung dei Coen, li riassorbe in un progetto finalmente vitale, capace se non di stravolgere almeno di rinfrescare il loro sguardo.
In fondo si tratta di una questione semplice: dovendo creare suspense, interesse e sorpresa in modo più continuativo rispetto ad un film di due ore, la sceneggiatura di Hawley deve per forza manipolare i personaggi, gli intrecci, le aspettative dello spettatore. Il killer predicatore Lorne Malvo interpretato da Billy Bob Thornton è chiaramente ispirato a quello di Non è un Paese per Vecchi, ma ha una sua autonomia, un’evoluzione non sempre lineare durante la serie, e la medesima cosa si può dire per l’altro protagonista, l’assicuratore Lester Nygaard (il britannico Martin Freeman, il Bilbo Baggins della trilogia de Lo Hobbit). Certo, il mondo dei Coen ne esce comunque identificabile con assoluta sicurezza in ogni episodio.
Le macchiette tanto amate dai fan ci sono anche qui, così come i personaggi paradossali (tra tutti sceglieremmo lo scagnozzo sordomuto e il suo degno compare). L’ambientazione (la serie è stata girata a Calgary, in Canada) regge il confronto con quella del film. Ma a fornire una boccata d’ossigeno è la costante possibilità che ci siano svolte imponderabili dovute a scelte inattese dei personaggi oppure ad accelerazioni imposte dal plot (con molto coraggio a un certo punto tutto viene spostato in avanti di due anni, spezzando la sostanziale unità di tempo). Questo significa che è la storia raccontata a vincere, con le sue irregolarità ed esigenze: il cinema esce vincitore e lascia sullo sfondo l’onnipresente filosofia dei produttori.
Un’ultima considerazione è per così dire “d’attualità”. È oramai forse impossibile dire quanti siano i film ispirati a serie televisive, ma la loro qualità è in generale sconfortante, a parte qualche eccezione (Miami Vice per esempio). Più insolito è il contrario, serie tv tratte o ispirate da film (M*A*S*H è un buon caso). Sicuramente pensare che un giorno magari non lontano potremmo vedere un lavoro televisivo a puntate che riprende Pulp Fiction o Matrix ci può far venire l’acquolina in bocca. Ma leggere che Sam Raimi sarebbe all’opera per un trattamento seriale de La Casa (film che ha già seguiti, remake e una pletora di omaggi, imitazioni e scopiazzature) fa molto impensierire, dopo il cinema, per lo stato di salute della televisione.