Non è semplice fare il selezionatore di un grande festival. Men che meno scegliere i titoli da mettere in concorso, destreggiandosi tra opportunità e desiderio, fra titoli di richiamo e film che accontentino il palato dei cinefili e dei critici più esigenti.
Sono i ragionamenti che andiamo facendo a caldo nei primi giorni di questa Mostra del Cinema: il programma del resto era stato già molto criticato dopo la conferenza stampa di presentazione e ognuno aveva detto la propria gettando un sasso nello stagno, chi per la scarsità di star di richiamo, chi per la modestia dei titoli in gara. Certo, c’è The Look of Silence di Joshua Oppenheimer, che dopo lo straordinario The Act of Killing si conferma autore di grande statura. Ma ci si può domandare se fosse davvero indispensabile The Cut di Fatih Akin, brutto e incolore romanzo d’appendice che racconta la disperata ricerca delle figlie perdute da parte di un padre armeno dopo l’epocale disfacimento dell’Impero Ottomano. E ancora, non è troppa grazia per David Gordon Green portare un altro film in concorso dopo il mediocre Joe visto lo scorso anno? Manglehorn, con un Pacino che cerca l’elegia, si guarda e si dimentica subito dopo la visione.
Mentre il lodato Anime Nere di Francesco Munzi ci è parso un film in ritardo dopo Gomorra (film e serie) nonché fin troppo preoccupato di un’accuratezza antropologica che ne fa un lavoro corretto, ma incapace di sorprendere, persino nel finale che copia (maluccio) dal migliore Abel Ferrara. Sono solo tre esempi, questi dei film di Akin, Green e Munzi, che ci sembrano indicativi di scelte dettate da necessità diverse dal valore intrinseco dei film. Akin serve forse da richiamo per il pubblico dopo l’apprezzamento della commedia Soul Kitchen, Manglehorn garantisce Al Pacino al Lido nel fine settimana, il film di Munzi una certa attenzione dei media nazionali, data la sua “tematica”. E si potrebbe continuare così, parlando del deludente Loin des Hommes con Viggo Mortensen o del poco significativo 99 Homes con Andrew Garfield e Michael Shannon.
Ciò considerato, non stupisce che le cose migliori si siano viste fuori concorso e nelle altre sezioni. Lo scoppiettante She’s Funny That Way di Peter Bogdanovich (Fuori Concorso) omaggia Lubitsch e una commedia di parola e di tempi comici che pare(va) ormai quasi svanita; il cinese Dearest di Peter Ho-sun Chan (sempre Fuori Concorso) è un intenso dramma su figli rapiti, ritrovati, contesi che supera anche una certa ridondanza; Jackie & Ryan (Orizzonti) di Ami Canaan Mann (già a Venezia con Texas Killing Fields nel 2011) conferma che la figlia del grande Michael Mann ha del talento, benché a noi sembri mancare per il momento di una precisa cifra registica: il che non toglie che il suo film, di humus indie, trovi spesso una misura che convince con la storia di una donna separata e di un artista di strada che percorrono un tratto di cammino insieme.
Tra tutti, il film che ha però i nostri personali favori di questi primi giorni di festival è Villa Touma (Settimana della Critica), esordio nel lungometraggio di Suha Arraf, sceneggiatrice arabo-israeliana di La Sposa Siriana e Il Giardino di Limoni. Nella vicenda di quattro donne ingabbiate e costrette dalle loro stesse abitudini aristocratiche e dalle loro convinzioni non manca un sottile ma profondo veleno politico e il film, girato magistralmente quasi tutto in interni, tocca vertici neri e grotteschi che colpiscono duro. Non a caso la polemica in Israele è divampata, soprattutto in conseguenza della decisione della regista di dichiarare che Villa Touma è un film “palestinese”. In attesa del Pasolini di Ferrara (che ci toccherà certo più da vicino), ci pare che sia una presa di posizione coraggiosa e destinata a fare discutere a lungo.