Nell’ultimo cinema americano i due più grandi campioni dell’autorialismo, American Sniper di Clint Eastwood e Inherent Vice (Vizio di forma) di Paul Thomas Anderson, si combattono con strutture narrative diametralmente opposte. I poli opposti di un diverso e speculare modo di vedere gli Stati Uniti di oggi e di ieri, dove le modalità di racconto seguono le forme più basilari del racconto, nel primo caso seguendole passo dopo passo, nel secondo caso distorcendole. Chi vince? Chi scrive propende in maniera netta per la seconda sponda, ma è una considerazione dettata dal fatto che Inherent Vice detiene il lusso tragico e raro di essere un film che fa delle superfici narrative un modello di ricatto formale e ideologico tale da poter rimanere stabilmente nella memoria, grazie personaggi talmente strambi e geniali, grazie alla conformazione di un mondo narrativo addizionale e fittizio, immorale e del tutto magico. La forma narrativa del dittico Anderson/Pynchon è del tutto aliena alla forza bruta del realismo eastwoodiano.
In un film come American Sniper lo spettatore deve ingoiare scene pesanti, dove il protagonista Bradley Cooper, con uno sguardo bovino semi assente, guarda in televisione le immagini dell’09/11 e gli sorge il desiderio di riempire di piombo lo straniero assalitore. Senza alcuna remora morale o dubbio. Eppure davanti al semplicismo di Eastwood molta critica ha applaudito. Forse perché Eastwood è uno storico beniamino della critica nostrana. Difatti, qualsiasi cosa giri Eastwood diventa automaticamente un cult. Non importa che American Sniper sia un film di una semplicità disarmante. Questa mentalità viene legittimata dal fatto che il film sia stato girato come un poderoso western d’altri tempi. Dove il realismo è baciato da una secchezza narrativa concreta e senza fronzoli. Basta questo per fare di American Sniper un film dove l’intrattenimento dei sentimenti diventa la prova di una mancanza di profondità endogena dell’immagine.
E’ qui che Inherent Vice sorprende e deraglia l’immaginario di riferimento: il postmoderno. L’importanza estetica del capolavoro di Anderson risiede nel fatto che lo spettatore ci si può perdere dentro. I personaggi fluttuano in un’acqua amniotica dove nessuno sa o può capire cosa stia succedendo. Lo stato d’incertezza è totale. Il dubbio regna sovrano e tutto può accadere senza che lo spettatore possa proferire una minima interpretazione dei fatti. Molti critici che hanno detestato American Sniper hanno apprezzato il film di Anderson. Una dialettica tra i due film che si potrebbe così sintetizzare: la superficie analitica di un profondo disagio nazionale stemperata catarticamente in una revenge senza ma e senza se (Eastwood), contro la superficie caotica di una grande voragine temporale che assume su di sé tutte le coordinate di uno squarcio spazio-tempo sconosciuto e definitivo (Anderson). Il pieno realistico contro il vuoto falso e luccicante. Il classico contro il postmoderno. E’ una dialettica che fa riflettere sullo stato del cinema americano di questo ultima stagione. Soprattutto se collegato ai dati del box office, che sono tanto sorprendenti quanto disarmanti, quasi comici.
American Sniper su 58,8 milioni di budget raccoglie 543 milioni in tutto il mondo; Inherent Vice su una base di 20 milioni incassa la miseria di 11 milioni. Un moderato insuccesso. Michael Mann con Blackhat ha fatto di peggio con un rapporto di 70/17, ma questo è un altro discorso. L’insuccesso del film Anderson rapportato con lo straripante successo di Eastwood pone nuovamente il dubbio sulla reale capacità dello spettatore di rapportarsi ad un testo filmico di grande complessità, come in questo caso il film di Anderson. Il film di Eastwood può permettersi una forza catartica talmente evidente e indubitabile da portare a casa un consenso facile, senza neanche alcuna difficoltà ideologica. E’ come se l’occidente premiasse un’assenza di domande, come se il reale non avesse alcun bisogno di essere spiegato ed essere messo in discussione. Eastwood vede nell’invasore esterno una minaccia alla sicurezza nazionale, ci fa un film e il pubblico applaude in massa. A differenza di Anderson che torna indietro di decenni costruendo un funerale formalista dove ogni episodio narrativo rimane un arazzo di splendore accecante e furioso. Come ben sa il cineasta australiano i sogni a Hollywood si pagano. Forse Anderson dovrà pagare pegno allo Zio Sam per aver avuto l’ardire di sfidare il sistema con un prodotto così anti-commerciale, autorialista fino nel midollo.
Non c’è niente da fare, alla fine il banco vince sempre. Eastwood è in prima linea nel difendere gli antichi valori fordiani del classicismo duro e puro, Paul Thomas Anderson ha compiuto una guerra al sistema con la Time Machine di Inhrent Vice, sapendo bene delle conseguenze cui sarebbe andato incontro. Alla fine la vittoria sul mercato va a Eastwood grazie ad una forma cinema che fa della temperatura emotiva la cifra stilistica di una dolce morta lenta e violenta (quella del cecchino Chris Kyle ucciso dal fuoco amico), contro l’estetica ipercinetica e assordante del purtroppo inutile Mad Max Fury Road di George Miller, contro i cinecomix girati con lo stampino, tornando ad una sana riconversione morale del cinema di una volta, morale e patetico, che faccia sentire volgarmente i sentimenti nudi dei personaggi, arrivando al cuore dello spettatore/critico. In questo contesto, preferisco stare con i lupi come Anderson, che attendono la loro preda silenziosamente nella boscaglia, decidendo di uscire solo per il boccone più prelibato, quello che non esce quasi mai, difficilissimo da trovare e vedere.