Guardando La vita di Adèle è possibile notare varie e precise connotazioni registiche e di messa in scena, operate da Abdellatif Kechiche: camera a mano, dialoghi serrati, attenzione al dettaglio e ricerca della poesia nel quotidiano sono tratti distintivi dell’ultima Palma d’oro di Cannes.
Un cinema ruvido e dalla messa in scena teatrale che non ricerca il reale (come in molti, troppi hanno erroneamente scritto) ma accentua, “droga” il veritiero per diventare qualcosa di più forte e stordente e di poco qualificabile dalla banalità della vita vera.
A partire da La Schivata (2003), il regista franco-tunisino ha ricercato nella sua opera un unione tra il teatro e il cinema. L’azione si svolge in unico luogo, un quartiere periferico di una città francese, reso come unico grande palcoscenico oltre che ambiente antropologico.
La struttura del film ricorda quella di una rappresentazione, con i personaggi (tutti attori non professionisti), sempre coinvolti in animate discussioni, come se stessero recitando dialoghi a un pubblico che li sta osservando, e ripresi da vicino dall’oppressiva cinepresa di Kechiche, come fossero dentro un palco teatrale.
La trama de La Schivata gira attorno all’allestimento teatrale di Il gioco dell’amore e del caso di Marivaux, commedia degli equivoci sull’innamoramento. E i protagonisti, i giovani Krimo e Lydia, vivono essi stessi i tormenti dell’opera che devono simulare, in un continuo gioco a rincorrersi, fatto di non detti e incomprensioni che porteranno a inaspettate conseguenze.
In mezzo al gioco teatrale creato da Kechiche c’è il cinema che racconta spaccati d’esistenza comune in modo potentissimo, senza avere pretese documentaristiche.
Con il film successivo, La Graine et le Mulet del 2007 (uscito in Italia col titolo Cous cous), Kechiche racconta le disavventure di un operaio navale magrebino senza più lavoro, che desidera restaurare una barca per poterci aprire un ristorante.
Qui il regista tunisino realizza una tragedia greca, piena di personaggi che si urlano addosso, si sbattono in faccia i loro problemi e non li risolvono: anche qui, niente trucchi o orpelli nel linguaggio registico, che resta secco e deciso; attacca gli attori per non farseli sfuggire neanche un momento, la messa in scena colpisce senza appello con il ritratto sociale e umano che il film offre.
Cous cous è una pellicola di stampo teatrale, ma cinematografica nello sguardo degli ambienti e dei corpi come nella celebre scena della danza del ventre.
Se Cous cous era basato sulla moltitudine dei corpi che danzavano ferocemente nel palcoscenico della vita, nel titolo successivo di Kechiche, Venere Nera (2010) c’è un solo un corpo, quello realmente esistito di Saartjie Baartman, conosciuta come la Venere Ottentotta, che all’inizio del 1800 venne fatta esibire come fenomeno da baraccone nei circhi di Londra prima e nei salotti borghesi di Parigi poi: ancora una volta Kechiche usa il cinema per fare teatro e viceversa.
Venere Nera è al tempo stesso dramma è opera in costume. Il corpo di Saartjiie viene continuamente esibito e mostrato agli spettatori nel film e agli spettatori che guardano il film.
Kechiche mescola di nuovo teatro (l’incipit è chiarissimo in questo senso) e cinema, ne viene fuori un’opera complessa sul senso del vedere, sul ruolo degli spettatori, e sull’arte in generale.
L’occhio dei protagonisti non è mai sazio delle forme della Venere Nera, come inconsapevolmente non lo siamo noi, i personaggi affollano i posti per vederla e lo spettatore esterno condivide la stessa brama voyeuristica-colonialista nel vedere e abusare con lo sguardo del corpo della Venere Ottentotta.
L’ultimo film di Kechiche, la Vita di Adèle non è così lontano da Venere Nera. Qui si ritorna a una pluralità di corpi due per la precisione, quelli di Adèle e Emma. Corpi che all’inizio del film sono scissi e sconnessi ma, dopo il fulmineo incontro, assumono un loro senso nell’unione sempre più accesa dei corpi.
Kechiche ci fa stare a stretto contatto ai personaggi, con la sua rabbiosa macchina da presa, annulla quasi lo schermo del cinema, avvicinandosi sempre più all’opera teatrale “da strada” pur realizzando un “comunissimo” melodramma dall’immensa ( è quasi inutile dirlo), intensità, dove la messa in scena non riprende la vita vera, perché il cinema di Kechiche la amplifica, rendendola più bella, più cinematografica.